Il pacto de l’olvido cileno e la democrazia
In Spagna, negli anni successivi alla fine del franchismo nel 1975, si verificò il cosiddetto “pacto de l’olvido” (patto dell’oblio in italiano). Lasciamolo descrivere dallo storico Aldo Giannuli:
Alcuni parlarono di pacto de l’olvido, in realtà sarebbe più corretto parlare di patto della sordina per tenere il tema lontano dalle dispute politiche, nel timore che questo riaccendesse antichi odi. Infatti i rancori per l’accaduto erano tutt’altro che spenti e la maggior parte degli spagnoli serbava memoria nitida delle offese ricevute dall’altra parte.[1]
Il pericolo era quello dello scoppio di una nuova guerra civile dopo quella del 1936-39: il regime infatti non era caduto per una sommossa popolare o in seguito ad una guerra, ma per abdicazione da parte del regime militare (che comunque mantenne numerosi privilegi e garanzie), arresosi di fronte alla disastrosa situazione economica e di forzato isolamento internazionale del paese. Il conflitto tra i repubblicani antifascisti e la destra franchista e ultraconservatrice era sempre presente, pronto ad esplodere in qualunque momento. Intervenne allora un patto tacito e informale, fatto in nome della pacificazione nazionale: mettere da parte gli antichi rancori, tacere processi e rivendicazioni in corso (soprattutto da parte degli sconfitti repubblicani), rinunciare a qualunque accusa pubblica contro l’altra parte. Le istituzioni post-franchiste ebbero un ruolo fondamentale nel pacificare la società e scongiurare il pericolo di nuova guerra civile.
Il “patto dell’oblio”, al di là della Spagna, può essere considerato un fenomeno storico presente in tutte le società contemporanee, in particolare in quelle che vivono o hanno vissuto fasi di transizione da un regime autoritario a uno democratico. L’alto grado di politicizzazione dell’opinione pubblica, da dopo la Rivoluzione francese in poi, ha caratterizzato gli eventi degli ultimi due secoli; numerosi sono stati gli episodi legati a scontri intestini ad una società fortemente polarizzata su due posizioni politiche di massima, in netta contrapposizione. Ogniqualvolta le due fazioni sono andate allo scontro c’è stata una parte vincente ed una sconfitta: ovviamente i vincitori hanno costruito un edificio istituzionale, politico e sociale, oltre che una politica della memoria, ad essi conforme, cercando di estirpare qualunque traccia dell’avversario dalla società, senza mai riuscirci del tutto. Passato un sufficiente periodo di tempo, per motivi anagrafici e politici, di solito si giunge ad una sorta di pacificazione interna tra i vecchi avversari che permette, nonostante le eredità politiche e la memoria continuino ad alimentare scontri e contrapposizioni, l’avvio di una fase nuova. Non stiamo dando un giudizio morale su quanto detto, stiamo descrivendo un fenomeno storico.
Forse nessun contesto come quello latinoamericano, dominato da dittature militari feroci tra gli anni Sessanta e la fine degli Ottanta (riferendoci, con questa datazione, ai regimi più recenti, ma la storia è di lungo periodo), è più adatto per studiare il fenomeno del pacto. In particolare, soffermandoci sul caso cileno, ci sono tre momenti importanti in tal senso:
- il discorso di insediamento di Patricio Aylwin, democristiano, primo presidente del dopo-giunta in Cile;
- la Commissione Rettig e la cosiddetta “dottrina Aylwin”;
- la Commissione Valech e la controinchiesta “Nosotros, los sobravivientes, acusamos”.
Partendo dal primo punto, infatti, Aylwin, a capo della coalizione Concertaciòn por la democracia, rappresenta una figura controversa per aver appoggiato, nel ’73, il colpo di Stato contro Allende. Dopo il referendum del 1988, relativo alla permanenza o meno di Pinochet come capo dello Stato per altri 6 anni, e perso dall’ex dittatore, la Transizione si è comunque svolta nella cornice della costituzione pinochetista dell’80 e con una serie di garanzie per i militari, a cominciare dal mantenimento del ruolo di capo delle forze armate da parte di Pinochet. Soprattutto, sebbene progressivamente tutte le forze politiche dell’opposizione armata, compreso quello comunista che aveva rifiutato di aderire alla Concertaciòn, decisero di abbandonare le armi, la parte più giovane dei loro militanti, cresciuta sotto la giunta, non abbandonò la lotta armata, che anzi proseguì di fatto fino alla fine del decennio.
I primi atti del governo Aylwin, che si insedia nel marzo 1990, rispecchiano perfettamente i meccanismi del pacto: nel suo discorso di insediamento, davanti a una folla gremita, il primo presidente democratico disse:
È affascinante e variegata la sfida che abbiamo di fronte: ricostruire un clima di rispetto e di fiducia nella convivenza fra i cileni […] Qualunque sia il loro credo, convinzioni, professione o condizione sociale. Si tratti di civili o di militari…[fischi e proteste da una parte del pubblico] Sì compatrioti. Che si tratti di civili o di militari. Il Cile è uno solo![2]
Il Cile è uno solo. Successivamente, il 25 aprile 1990, istituisce la Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione, presieduta dal deputato Rettig, i cui lavori proseguono fino al febbraio ’91. In occasione della pubblicazione dell’Informe Rettig, il rapporto finale, il 4 marzo, Aylwin enunciò i principi di quella che sarebbe divenuta nota come “dottrina Aylwin”: la Commissione infatti accertò un numero di 2279 vittime del regime dittatoriale (numero di molto inferiore a quello reale e che considerava solo determinate categorie di perseguitati politici) ed elaborò una serie di raccomandazioni al governo riguardo misure di riparazione per le vittime e di riforme finalizzate alla democratizzazione delle forze armate, che però trovarono realizzazione solo parziale o nulla a causa soprattutto dell’opposizione di militari e forze conservatrici. Particolare della commissione Rettig: non considerava i casi di tortura e detenzioni illegali, ma solo i morti accertati per mano degli apparati repressivi. Non si trattava di una distrazione: per lungo tempo la società civile cilena negò, quasi secondo un meccanismo di rimozione psicologica, la prassi della tortura e della desapariciòn da parte dello Stato.
Commentando il Rapporto, Aylwin, giurista di formazione, diede una sua interpretazione dell’amnistia del 1978 promossa dalla giunta in piena dittatura, successivamente sostenuta anche dalla ministra della giustizia, Monica Madariaga: l’ammissione delle responsabilità penali e delle colpe storiche non avrebbe comportato conseguenze giuridiche.[3] Nel corso degli anni Novanta saranno diverse le sentenze di terzo grado che però arriveranno a negare la validità di una legge di amnistia promossa da una dittatura militare.
Parallelamente, la liberazione degli oppositori politici tra l’89 e il ’90 non riguardò i combattenti delle organizzazioni armate o dei bracci armati dei partiti democratici. Poco prima dell’insediamento, Aylwin ammonì il Partito comunista, affermando
Credo che negli ultimi tempi il PC abbia sviluppato una linea sincera improntata alla comprensione di quello che significa la mia candidatura, la quale condurrà a una transizione verso la democrazia, ed è per questo che pensiamo debba giocare un ruolo nella politica del Paese e non rimanere nell’ombra, in clandestinità. Ma la transizione sarà difficile e bisogna sperare che non ci saranno azioni violente, scioperi illegali, manifestazioni che renderanno difficile il compito di governare.[4]
Le norme antiterrorismo della costituzione rimasero in vigore. I giovani combattenti che avevano pagato caro la loro opposizione al terrore di Stato negli anni Ottanta riuscirono spesso a lasciare le carceri dove erano detenuti solo evadendo (come nel 1990 e nel 1996 il Frente e sempre nel 1990 il Lautaro). Le azioni di lotta armata proseguirono, da parte soprattutto del Movimiento Juvenil Lautaro – MAPU Lautaro fino al 1994 e quelle più spettacolari del Frente Patriotico Manuel Rodriguez – FPMR fino al 1999. Gli obiettivi principali erano la liberazione dei prigionieri politici degli anni della dittatura e colpire torturatori, aguzzini e collaboratori della giunta rimasti impuniti o riciclatisi come democratici.
Ma l’opposizione a questo tipo di giustizia di transizione e alle sue conseguenze a livello di politica della memoria non si espresse solo attraverso le armi. Nel 2003, durante la presidenza del socialista Ricardo Lagos, venne istituita una seconda commissione: la Commissione nazionale sopra la detenzione politica e la tortura, presieduta dal vescovo Valech, uno dei fondatori del Vicariato della Solidarietà nel 1976. Quando nel dicembre 2004 venne reso pubblico il Rapporto Valech, che si concentrava sulle attività degli apparati repressivi della dittatura in diverse fasi (dal ’73 alla fine degli Ottanta), sulla base di oltre 35mila interviste a vittime della giunta, il presidente Lagos decise di secretare per 50 anni i nomi dei responsabili degli atti di tortura e detenzione clandestina.
Pochi giorni dopo, un gruppo di ex detenuti politici cileni diffonde un documento contenente i nomi di 2mila presunti torturatori, incluse numerose donne, attivi durante il regime pinochetista.
Il dossier, intitolato Nonostros, los sobrevivientes, acusamos[5] e presentato in una conferenza stampa a Santiago presieduta dalla direttrice della Coordenadora de ex-presos y presas políticas, Liliana Masson, contiene anche un elenco di sospetti centri di detenzione clandestina e di diverse tipologie di tortura inflitte agli oppositori della dittatura.
Il testo include una lista di presunti collaboratori dei torturatori, tra cui avvocati, medici, giornalisti e imprenditori accusati di coinvolgimento in violazioni dei diritti umani. La Masson definì il documento della Coordenadora dichiaratamente come “rapporto alternativo” a quello stilato dalla ‘Comisión Nacional sobre la Detención Política y la Tortura’, presieduta da monsignor Sergio Valech. La commissione Valech, presieduta da un’altra esponente del Vicariato, Maria Luisa Sepùlveda, nel 2011 pubblicò un secondo rapporto in cui si riconosce un totale di 40.018 vittime di torture e violenze della dittatura e 3065 desaparecidos o assassinati.
Molto lavoro c’è ancora da fare rispetto alla definizione della dittatura militare e della struttura sociale di collaborazione su cui si è basata per 17 anni; così come riguardo lo status di oppositori legittimi e “terroristi” illegittimi da parte delle istituzioni, della giustizia cilena e della memoria storica.
Solo negli ultimi anni si è iniziato a parlare di dittatura civico-militare, per sottolineare le profonde ramificazioni e collaborazioni nella società civile; mentre il recente caso di Ricardo Palma[6] e della sua compagna Silvia Brzovic, militanti del FPMR, in particolare il primo accusato dell’omicidio Guzmàn nel ’91, comparsi in Francia nel febbraio 2018 chiedendo asilo politico, sta riaprendo il dibattito circa le continuità tra dittatura e democrazia, le impunità e la conseguente legittimità o meno delle azioni di lotta armata successive alla Transizione iniziata con il referendum del 1988.
[1] Aldo Giannuli, L’abuso pubblico della storia, Ugo Guanda Editore, Parma 2009, p. 235
[2] https://www.avvenire.it/agora/pagine/cile-
[3] G. Fornasari, Giustizia di transizione e diritto penale, pp. 130-33, G. Giappichelli Editore, 2013, Torino
[4] A. Proenza, T. Saavedra, Gli evasi di Santiago, p. 205, Angelo Colla Editore, Torino 2011
[5] Qui scaricabile: http://www.purochile.rrojasdatabank.info/Nosotros.pdf
[6] https://www.infobae.com/america/america-latina/2018/02/16/detuvieron-en-francia-a-ricardo-palma-salamanca-ex-guerrillero-condenado-por-el-asesinato-del-ideologo-de-pinochet/