Storia orale e public history in America Latina
Il nostro non è un lavoro che nasce dal nulla: in America Latina in particolare la storia orale ha avuto uno sviluppo importante negli ultimi trent’anni, che corrispondono grosso modo alla fase di transizione e uscita di molti paesi del Cono Sud dalla “lunga notte” delle dittature militari. Gli storici del continente “desaparecido” hanno infatti contribuito in modo decisivo alla costruzione di un nuovo campo di studi denominato historia reciente[1], “storia recente”, concetto che si affianca molto bene a quello di public history ma soprattutto all’area più d’avanguardia (audace, “spericolata” per certi versi) dei contemporaneisti anche qui da noi, in Italia ed Europa.
Mentre in Occidente si proclamava a gran voce la “fine della Storia”, nei contesti sudamericani che affrontavano l’uscita dalla “riconquista coloniale”[2] per mano militare durante la Guerra Fredda invece si concepiva la Storia come immediatamente presente e necessaria non solo per comprendere il passato recente, ma anche e soprattutto per guidare le scelte di collettività nazionali traumatizzate da una ferocia senza eguali per scientificità e razionalità di Stato.
Come ci ricorda Alessandro Casellato, a questo proposito,
nella lunga fase di transizione alla democrazia attraversata da molti paesi che erano stati soggetti a dittature, la storia orale fu chiamata direttamente in causa, in quanto il lavoro sulla memoria dei sopravvissuti e dei loro familiari e la riflessione sulle psicopatologie del ricordo prodotte dalla repressione non furono solo oggetto di dibattito accademico, ma ebbero conseguenze anche di tipo giuridico nella valutazione delle testimonianze processuali. Anche la decisione se mettere o meno a disposizione dei cittadini i documenti conservati negli <archivi della repressione> – verbali di interrogatori, delazioni spesso estorte, lettere personali oggetto di sequestro – ha posto dilemmi etici intorno all’uso di documenti che parlano di persone che sono vive.[3]
Sono stati in particolare il Cile e l’Argentina ad avviare una profonda riflessione circa la memoria e l’interpretazione storica delle dittature militari, dell’esperienza di chi le ha vissute e di chi le ha combattute. La ragione storica è stata spesso piegata alle ragioni della pacificazione nazionale in contesti dove le giunte militari non sono cadute a causa di un fatto o processo violento (una sommossa, una rivolta armata interna o una guerra esterna), ma in seguito a una abdicazione. Le fasi dette della “Transizione”, come già accennato, hanno avuto un effetto a lungo termine sulle politiche e i meccanismi della memoria.
Prendendo i discorsi di insediamento e i provvedimenti giuridici dei due primi presidenti democratici dell’Argentina e del Cile, Raul AlfonsÍn e Patricio Aylwin, rispettivamente nel 1983 e nel 1990, troviamo la traccia della futura rielaborazione ufficiale dell’esperienza dittatoriale.
- AlfonsÍn parlò dei “due demoni”[4] che avevano dilaniato il paese per decenni: la violenza guerrigliera e la reazione militare; non è un caso che il presidente argentino anteponesse la lotta armata, peronista e marxista, alla violenza militare, presentata come conseguenza e soprattutto separata dallo Stato. Mentre dal punto di vista storico piuttosto sarebbe più corretto considerare, per il paese latinoamericano che ha avuto l’esperienza più lunga di golpe e interventi militari (17 in trent’anni), la guerriglia come temporalmente successiva.
La teoria dei due demoni fornì il quadro politico-culturale per la legge “del punto final”[5] e della “obediencia debida”[6], che solo anni dopo, al termine dell’era Menem con il crack del 2001 e con l’inizio dei governi Kirchner, verranno dichiarate incostituzionali e superate.
- Aylwin, invece, fece un accorato appello all’unicità del Cile e del popolo cileno, al di là di divisioni che si sarebbero dovute superare per il bene comune[7]. La sua politica di riparazione e pacificazione andò esattamente in questa direzione: istituendo una commissione per la verità e la riconciliazione, la commissione Rettig, che non considerava i casi di tortura e detenzione illegale; confermando la validità dell’amnistia del 1978[8]; mantenendo in vigore le norme antiterroriste della Costituzione pinochetista del 1980 e quindi confermando le decennali condanne penali per molti combattenti di organizzazioni d’opposizione[9].
In parte questa retorica e reinterpretazione pacificatrice è stata supportata anche da quella parte di società civile democratica che si è opposta alle dittature e che nei dopogiunta ha svolto con grande coraggio la battaglia per la verità e la giustizia[10]. Secondo alcuni, un ruolo chiave lo ha avuto paradossalmente il discorso pubblico sui diritti umani che, da perno dell’opposizione alle politiche dell’impunità, è divenuto anche funzionale ai patti dell’oblio[11] che hanno di fatto espunto la dimensione del conflitto e della politica dall’esperienza dittatoriale e in particolare dei desaparecidos[12].
È qui che il mestiere dello storico orale e il public historian, nella cornice della historia reciente, incontrano una Storia tutt’altro che finita. In America Latina, infatti,
il raccontare è stato parte di un percorso di sanazione, riparazione e memorializzazione che da personale e privata si è fatta sociale e politica. Ciò è avvenuto sia in assenza che in presenza di una giustizia penale per le violazioni dei diritti umani. […] Tutti gli stati latinoamericani, all’uscita dai processi civico-militari e in presenza di violazioni di massa dei diritti umani, hanno prima o poi dovuto prevedere dei processi di “memorializzazione” che includessero forme di utilizzo della memoria attraverso l’intervista, contigue alla Storia orale.[13]
In Argentina, ad esempio, è il racconto delle Madres de Plaza de Mayo che incrocia attivismo per i diritti umani, militanza politica e storia orale e anche al loro interno si sono evidenziate delle divisioni importanti legate alla memoria dei propri figli e a cosa abbia significato, dal punto di vista storico, la loro desapariciÓn. È questa la frattura che ha contrapposto le Madres – Linea Fundadora e le Madres – Linea Hebe, più sensibili rispettivamente alla retorica individuale della vittima del terrore statale oppure alla rivendicazione (spesso non totalmente corrispondente alla realtà) della dimensione politica, finanche rivoluzionaria, della scelta della propria figlia o figlio. Entrambe hanno comunque dovuto lottare per anni contro il senso comune dell’“algo hicieron” (“qualcosa avranno fatto” per fare quella brutta fine), prodotto dalla dittatura e introiettato dalla democrazia[14].
Questo è un caso di memorie divise, molto presenti nelle comunità che hanno vissuto un contesto di guerra civile o di lotta politica molto duro e dove, come ci insegna Alessandro Portelli[15], sono spesso dei falsi ricordi e degli stereotipi antistorici a sostenere ed alimentare false memorie del passato, fino a farle diventare senso comune.
In Cile, invece, ci sono due principali linee di frattura della memoria, con profondi legami generazionali: la memoria del governo di Salvador Allende e il senso storico della sua morte; la resistenza armata degli anni Ottanta.
Il primo caso, più indagato, in particolare da Carotenuto che ha svolto a proposito del modo in cui morì il “Compagno Presidente” della Unidad Popular una ricerca di storia orale coi testimoni della battaglia della Moneda, interpreta anche le forme della lotta politica successiva. Alla doppia versione della morte in combattimento promossa dall’allendismo in esilio e del suicidio dichiarata dalla giunta militare, ci sono altre due versioni sempre del suicidio: la prima, affermatasi a sinistra negli anni della Transizione, che lo interpreta come “atto di coerenza politica” predeterminato e quasi già deciso da Allende; la seconda, sostenuta dai sopravvissuti del GAP (il Grupo de Amigos Personales, la guardia del corpo personale del Presidente, formata da uomini degli apparati armati dei partiti di UP e della sinistra cilena), che invece descrive il suicidio sì come atto di coerenza politica, ma al termine di una resistenza che ci fu e che fu sconfitta anche dal fatto che i partiti politici lasciarono Allende e il GAP soli.
La versione della ConcertaciÓn democratica (la coalizione di partiti di centrosinistra formatasi nella seconda metà degli anni Ottanta e vincitrice, con il democristiano Aylwin candidato presidente, nelle prime elezioni del dopo giunta) ha conseguenze di legittimità politica più ampie:
l’ineluttabilità della sconfitta “della ragione di fronte alla forza”, l’impossibilità della difesa in armi del processo di Unidad Popular, nella quale la narrazione del suicidio appare centrale.[16]
E ancora:
l’idea del golpe che viene data durante la transizione del Partito socialista (che voleva armare il popolo in contrapposizione al Partito comunista che predicava il No alla guerra civile) è che Allende si sia sacrificato per la democrazia in Cile da ricostruire in maniera pacifica, patteggiando col nemico per arrivare a quelli che saranno i governi della Concertazione.[17]
I GAP, invece, che “rappresentano un embrione di resistenza armata”, ricordano che, se Allende certamente non voleva la guerra civile (e il suo ultimo discorso testimonia proprio questo), è anche vero che accettò e legittimò il principio di resistenza al nemico. Corollario di queste diverse interpretazioni sono le ricostruzioni dell’esperienza del governo Allende: “arruolare” il Presidente tra le figure storiche di un riformismo radicale e democratico che puntava a modernizzare ed emancipare per via autonoma il paese, ma lontano dalla violenza guerrigliera che sconquassava il continente e, soprattutto, dall’autoritarismo cubano; oppure ricordare gli atti di embrionale costruzione di quello che si (auto)definiva “poder popular”, i rapporti di alleanza con i movimenti rivoluzionari cileni esterni a UP (a cominciare dal MIR), l’amicizia e vicinanza con Cuba[18], il supporto e l’aiuto dato ai guerriglieri argentini nel 1972, nel contesto del massacro di Trelew[19].
Questo è importante anche e soprattutto per comprendere il senso e la memoria della resistenza armata che sviluppano poi le generazioni più giovani cresciute sotto la dittatura. Ci riferiamo in particolare al Frente Patriotico Manuel Rodriguez – FPMR e al Movimiento Juvenil Lautaro – MAPU Lautaro. In particolare dopo il fallimento dell’operazione “siglo XX”, l’attentato a Pinochet in cui il dittatore rimase illeso, la lotta armata venne sempre più isolata e messa “sotto processo” anche da parte dell’opposizione democratica. Tanto che il mancato riconoscimento di legittimità degli atti di resistenza armata si tradurranno nel passaggio della loro concezione come atti “di terrorismo” dalla dittatura alla democrazia, con conseguente mantenimento della repressione parallela da parte degli apparati di sicurezza dello Stato e, come già ricordato, la mancata amnistia per i reati politici connessi all’attività guerrigliera.[20] Un altro effetto collegato fu l’assenza di percorsi di integrazione e reinserimento nella società democratica di giovani combattenti che fin da giovanissimi avevano imbracciato le armi e vissuto secondo le regole della clandestinità.
Tutto questo, prima di essere storia insegnata e scritta, è storia raccontata oralmente e spesso ricostruita a livello di comunità territoriale o politica. In America Latina la storia orale ha significato non solo una rielaborazione personale ma anche collettiva, in un contesto dove troppo frettolosamente le istituzioni e le società in via di democratizzazione hanno pensato di poter chiudere i conti con il passato recente, dando una versione semplificata e funzionale solo agli interessi del potere politico.
La testimonianza, la costruzione di fonti orali (ma non solo), è per l’intervistato anche occasione per riflettere su di sé, sugli altri membri del gruppo che hanno vissuto un’esperienza simile e sull’armonizzazione tra la propria e le altrui esperienze. È un’armonizzazione nella quale non fa premio l’individualità […] anche ragionando sul sé, pescando dalla propria memoria dai propri sentimenti ci si racconta non sulla base di un noi, ma almeno di una sorta di “io collettivo”, nel quale converge il vissuto personale e quello di chi ha condiviso non solo l’esperienza ma la memoria di quest’esperienza.[21]
A questo proposito, sono direttamente gli storici e le storiche latinoamericane a dirci del perché è inevitabile che la historia reciente del loro continente abbia caratteri fortemente militanti e per certi versi “controegemonici”. Eventi traumatici o forte presenza sociale sono gli elementi principali che per Marina Franco e Florencia Levín possono segnare cesure temporali a partire dalle quali è possibile pensare la storia recente:
Anche se non ci sono motivi epistemologici o metodologici per la storia recente debba essere circoscritto a eventi di questo tipo, la verità è che nella pratica professionale che si sviluppa in paesi come l’Argentina e il resto del Cono Sud, che hanno passati attraverso regimi repressivi e una violenza senza precedenti, è la natura traumatica del passato di solito che interviene nella delimitazione del campo di studi.[22]
È questo “passato che non passa” che impone, quindi, una periodizzazione con forti connotazioni politiche. La historia reciente non ha pertanto la pretesa di porsi come disciplina pura: si presenta come una necessità, è l’utilizzo pubblico della Storia nel suo senso più sano e pieno. “La storia recente è figlia del dolore”, dicono le due storiche argentine, e identificano il suo ruolo nella cura di un trauma collettivo e della malattia, che ne è conseguenza, che ha pervaso le società post-dittatoriali. Sono dunque la rimozione e la coazione a ripetere (per usare il linguaggio psicanalitico) gli obiettivi principali della historia reciente e della storia orale degli ultimi trent’anni nel Cono Sud.
Anche Enzo Traverso[23], che oltre al contesto sudamericano ha studiato anche altri casi studio relativi al rapporto tra storia e memoria, ci ricorda che l’intersezione nel presente tra le due dimensioni è la politica, con il suo fardello di pretese di giustizia di fronte alle atrocità contemporanee. Allo storico orale il compito di ascoltare e interpretare secondo il metodo le memorie individuali e le identità collettive che si formano in seguito all’esperienza traumatica della violenza di Stato e della resistenza, per meglio comprendere il presente e le sue narrazioni prevalenti.
[1] Marina Franco, Florencia Levìn, Historia reciente. Perspectivas y desafíos de un campo en construcción, Paidós 2007
[2] E. Galeano, Memoria del fuoco, V. 3 Il secolo del vento, Rizzoli 2001
[3] A. Casellato, Il mestiere della storia orale, p.79 in AA.VV., Archivio Trentino 01/2016, Publistampa Arti Grafiche, Pergine Valsugana, 2017
[4] Rolo Diez, “Vencer o morir”. Lotta armata e terrorismo di stato in Argentina, p.366, il Saggiatore, Milano, 2004
[5] La legge 23.492 di estinzione dell’azione penale, detta legge del punto finale (ley 23.492 – Extinción de la acción penal (punto final)) promulgata il 24 dicembre 1986 durante la presidenza di Raúl Alfonsín, stabilì la paralisi dei processi contro gli autori delle detenzioni illegali, le torture e gli assassini che hanno avuto luogo durante la cosiddetta guerra sporca del 1976-1983.
[6] La legge dell’obbedienza dovuta, ley n. 23.521 obediencia debida, emanata il 4 giugno 1987 dal Parlamento argentino, sempre durante la presidenza Alfonsín, sollevava da responsabilità, senza possibilità di prova contraria, i rappresentanti delle forze armate che si fossero macchiati di delitti contro gli oppositori e di crimini contro l’umanità durante il periodo della dittatura militare tra il 1976 e il 1983.
[7] https://www.avvenire.it/agora/pagine/cile-
[8] Nel ’78 la giunta militare guidata da Augusto Pinochet promulgò una legge di amnistia che impediva lo svolgimento di processi e condanne per le attività degli apparati repressivi militari e statali dal 1973 al 1978. Parallelamente all’istituzione della Commissione Rettig (1990-91), il presidente democristiano teorizzò la cosiddetta “dottrina Aylwin” sulla validità dell’amnistia e la separazione tra la possibilità di dichiarare le responsabilità storiche della dittatura e l’impossibilità di svolgere processi a carico dei militari.
[9] V. A. Proenza, T. Saavedra, Gli evasi di Santiago, Angelo Colla, Costabissara 2011
[10] Si vedano le dichiarazioni di Ernesto Sabato, anch’egli sostenitore della “teoria dei due demoni”. Sabato fu il leader della CONADEP, la “Commissione Nazionale sulla Sparizione di Persone”, al termine dell’ultima dittatura militare nell’83, che produsse il “Nunca Más” (mai più), il che aprì la strada all’indagine, storica e giuridica, sul terrorismo di Stato in Argentina e America Latina: http://www.giannimina-latinoamerica.it/612-ernesto-sabato-peccato-per-quei-qdue-demoniq/
[11] V. M. E. Pérez, Diario de una princesa montonera, 110% verdad, Buenos Aires: capital intelectual, 2012
[12] G. Pedullà, Desaparecidos, sparite anche le idee, su Il sole 24 ore, 17 settembre 2017 (http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-09-17/desaparecidos-sparite-anche-idee-081410.shtml?uuid=AEedSeUC)
[13] G. Carotenuto, Logiche di gruppo e armonizzazione della narrazione, p. 242, in AA.VV., Archivio Trentino, cit.
[14] Ivi, p. 244
[15] Si veda A. Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli 2005
[16] Ivi, p. 251
[17] Ivi, p.253
[18] In particolare, ci sono due elementi da ricordare: il fatto che il governo Allende riaprì le relazioni diplomatiche con Cuba interrotte dai precedenti governi Alessandri e Frei; la visita di 3 settimane di Fidel Castro in Cile nel 1972.
[19] Il penitenziario federale di Trelew, dove erano rinchiusi molti militanti di organizzazioni guerrigliere argentine, fu sede di una rivolta da parte di alcuni di questi detenuti politici che la morte di una guardia e un tentativo di fuga che causò l’evasione di un centinaio di oppositori della dittatura militare. Il grosso degli evasi venne ripreso e fucilato sul posto, mentre un piccolo gruppo di prigionieri riuscì a fuggire in aereo fino in Cile, dove il presidente Allende li ospitò in modo non ufficiale fino al loro passaggio verso Cuba.
[20] V. A. Proenza, T. Saavedra, op. cit.
[21] G. Carotenuto, op. cit., p. 254
[22] M. Franco, F. Levìn, op. cit., p. 34
[23] E. Traverso, Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, p. 11, Ombre Corte 2006