Oblio e stabilità: dall’arresto di Pinochet al caso Brzovic-Palma
La strada della concertazione e dell’olvido è spiegabile storicamente considerando una serie di fattori: la forza politica della destra, dei militari, delle istituzioni plasmate dal regime e la parallela debolezza dell’opposizione; la “gabbia istituzionale” costruita e garantita dalla Costituzione; l’incapacità di riorganizzazione politica che 17 anni di Terrore di Stato hanno prodotto sulla società, profondamente segnata dalla paura e caratterizzata dalla volontà di oblio; la cultura politica della nuova classe dirigente, sostenitrice della necessità di accordo e negoziazione in nome della riconciliazione nazionale, considerata l’unica strada per ricostruire e consolidare la democrazia.
Soffermiamoci un momento su quest’ultimo punto in relazione al secondo importante momento nella costruzione della verità ufficiale cilena sugli anni della dittatura militare: l’ordine di cattura internazionale emesso nel 1998 dai giudici spagnoli Baltasar Garzòn e Manuel Garcìa Castellòn contro Pinochet, mentre questi si trovava a Londra per motivi medici. I due giudici, infatti, avevano accolto l’anno prima la denuncia presentata dalla Uniòn Progresista de Fiscales – UPF (associazione di magistrati progressisti), per l’omicidio di cittadini spagnoli in Cile, aprendo così un’inchiesta per genocidio e terrorismo contro l’ex dittatore.
L’intervento dei giudici spagnoli apre uno scontro internazionale tra la legittimità di intervento del diritto internazionale oltre i confini statali e la presunta difesa della sovranità nazionale; in Cile invece tutta la vicenda mette in discussione il processo di transizione così come si era realizzato fino a quel momento:
non c’è dubbio che l’arresto di Pinochet a Londra segna una cesura nella transizione cilena. È chiaro che il paese è un paese diviso, che i vissuti sono divisi e non c’è modo di riconciliarli. Le memorie affiorano ed è impressionante osservare come molte vittime che prima dell’arresto di Pinochet avevano scelto il silenzio e la rimozione cominciano a raccontare e il movimento dei diritti umani riprende slancio.[1]
A livello internazionale la mobilitazione è sostenuta dalle molte associazioni e gruppi di esuli cileni rimasti nei paesi ospiti anche dopo il ritorno della democrazia. Paradossalmente, durante il fermo dell’ex dittatore a Londra, sono proprio gli esponenti del governo di centrosinistra, tra cui il ministro degli esteri, il socialista José Manuel Insulza, vittima della repressione ed esule in Italia durante gli anni Settanta, a opporsi all’iniziativa del giudice spagnolo. La Concertaciòn al governo rivendica la propria prerogativa di processare Pinochet in patria, in nome della sovranità nazionale e dietro forti pressioni dell’esercito. Ma c’è anche un altro motivo:
I processi transnazionali permettono che poche persone, a volte rifugiate all’estero, scombinino gli accordi tra vecchi e nuovi governanti; e che riescano a farlo anche a distanza di anni. In sintesi, la possibilità che si possa celebrare un processo fuori dai confini nazionali, obbliga le autorità politiche dei governi di transizione ad aggiornare l’agenda politica e a riaprire questioni che aveva dato per concluse. Ovviamente è un’operazione che può implicare rischi per la stabilità politica interna dei vari paesi ma che apre anche la strada per una democratizzazione più incisiva.[2]
Processare Pinochet significava, secondo la cultura politica dei governanti, rompere il fronte del silenzio e dell’oblio su cui si era basata la rifondazione democratica dello Stato e della società cilena, infrangere l’equilibrio tra immunità ai militari e progressiva restituzione del potere nelle mani dei civili, che aveva garantito stabilità sociale e politica.
Il braccio di ferro durerà quasi due anni, quando infine nel 2000 il ministro degli interni britannico Jack Straw decide di fargli lasciare il paese per <<ragioni umanitarie>>. Al di là del fallito tentativo di estradizione verso la Spagna, la vicenda ha due importanti conseguenze: l’avvio di una fase nuova nei processi contro la violazione dei diritti umani, rafforzando il principio di universalità della loro difesa contro il principio di sovranità nazionale, con conseguente apertura di altri casi da parte di tribunali in Italia, Francia, Scandinavia, Stati Uniti; in secondo luogo,
la società cilena riappare, dopo una lunga parentesi, apparentemente armonica, spaccata. I vecchi odi e rancori riemergono; molti cileni democratici, finalmente felici nel vedere il dittatore agli arresti, si contrappongono a moltissimi altri cileni che vogliono dimenticare il passato e a moltissimi altri che semplicemente difendono il dittatore. Le piazze tornano a riempirsi di manifestanti delle due parti […]. I militari rivendicano il loro ruolo di “salvatori della patria” e chiedono che il loro eroe torni presto al suolo natio.[3]
Maggiore mobilitazione della società civile e dei movimenti sociali, ma anche riapertura di vecchie istruttorie contro Pinochet[4] e avvio di nuove iniziative di denuncia pubblica contro torturatori tornati in abiti civili[5].
Questa intensa mobilitazione nazionale e internazionale portò i vertici istituzionali e politici cileni a un nuovo passaggio: il 26 settembre 2003, durante la presidenza del socialista Ricardo Lagos, venne istituita una seconda commissione di inchiesta, la Comisión Nacional sobre la Detención Política y la Tortura (Commissione nazionale sopra la detenzione politica e la tortura), presieduta dal vescovo Valech, uno dei fondatori del Vicariato della Solidarietà nel 1976. Anche questa Commissione, come quella precedente (rispetto alla quale si pone l’obiettivo di rimediarne le omissioni), ha carattere extragiudiziario e non potrà esprimersi in merito a responsabilità individuali. Anche per questo motivo, rispetto alla definizione dello status di vittima di cui ci si intende occupare, restano escluse le detenzioni e le torture subite a seguito di arresti collettivi, durante ad esempio manifestazioni, perché altrimenti verrebbe meno la motivazione individuale dell’arresto; inoltre, non la Commissione non considera come violazioni del diritto le intimidazioni, le irruzioni e le perquisizioni domiciliari (tra le azioni più diffuse durante la dittatura).
Quando nel dicembre 2004 venne reso pubblico il Rapporto Valech, che si concentrava sulle attività degli apparati repressivi della dittatura in diverse fasi (dal ’73 alla fine degli Ottanta), sulla base di oltre 35mila interviste a vittime della Giunta, il presidente Lagos decise di secretare per 50 anni i nomi dei responsabili degli atti di tortura e detenzione clandestina (giustificata da una presunta richiesta di privacy da parte degli intervistati e delle vittime), promulgando al tempo stesso una nuova Ley de Reparaciòn, estendendo i benefici giuridici, economici e sanitari già garantiti ai familiari dei desaparecidos anche ai sopravvissuti. Rispetto alle parole d’ordine dell’Informe Rettig, l’Informe Valech sostituisce i termini e i concetti di “verità” e “riconciliazione” con quelli di “memoria collettiva” e “riparazione”[6].
Pochi giorni dopo, un gruppo di ex detenuti politici cileni diffonde un documento contenente i nomi di 2mila presunti torturatori, incluse numerose donne, attivi durante il regime pinochetista.
Il dossier, intitolato Nonostros, los sobrevivientes, acusamos[7] e presentato in una conferenza stampa a Santiago presieduta dalla direttrice della Coordenadora de ex-presos y presas políticas, Liliana Masson, contiene anche un elenco di sospetti centri di detenzione clandestina e di diverse tipologie di tortura inflitte agli oppositori della dittatura.
Il testo include una lista di presunti collaboratori dei torturatori, tra cui avvocati, medici, giornalisti e imprenditori accusati di coinvolgimento in violazioni dei diritti umani. La Masson definì il documento della Coordenadora dichiaratamente come <<rapporto alternativo>> a quello stilato dalla Comisión Nacional sobre la Detención Política y la Tortura, presieduta da monsignor Sergio Valech; viene inoltre smentita l’affermazione di Lagos relativa al mantenimento del segreto sui nomi dei torturatori come richiesta da parte delle vittime. Il punto centrale della denuncia pubblica del Nosotros è focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica sul principio della responsabilità individuale e rompere il tabù sociale della tortura.
L’azione in particolare della Agrupación de Familiares de Ejecutados Políticos[8] e della Agrupación De Familiares De Detenidos Desaparecidos[9], associazioni di familiari di desaparecidos e ammazzati dalla Giunta militari, che svolgono un ruolo simile a quello delle Madres y Abuelas de Plaza de Mayo in Argentina (ritrovandosi e marciando in ogni città del Cile tutti i venerdì), assieme alle reti transnazionali giuridiche e associative, di cui fanno parte molti esuli politici, ha l’obiettivo di intensificare la denuncia sociale e politica, rifiutando il principio della concertazione e mantenendo vivi i nodi irrisolti della transizione. Mobilitazione e impegno pubblico, politico e di memoria, che acquista un significato ancora più forte di fronte alle posizioni dell’ultimo governo cileno, quello guidato da Sebastian Piñera, esponente di una coalizione di destra critica verso la figura di Salvador Allende e accondiscendente nei confronti delle “ragioni” della Giunta. In occasione del 45° anniversario dal colpo di Stato, il Presidente della Repubblica ha scritto un lungo editoriale sul quotidiano El Mercurio, nel quale presentava il proprio punto di vista:
è bene e necessario ricordare che la nostra democrazia non è finita all’improvviso l’11 settembre 1973. Essa era gravemente malata da molto prima e per diverse ragioni. Una di queste è il percorso di Unidad Popular e del governo di Salvador Allende, al quale la maggioranza dei cileni era contraria e che portò alla crisi sociale e politica.
Il discorso di Piñera è ufficialmente a favore della riconciliazione nazionale e, in quest’ottica, legge gli “insegnamenti” che la dittatura militare (di cui condanna le violazioni dei diritti umani) ha impartito sia alla sinistra che alla destra in Cile:
La prima – ha spiegato – ha appreso a condannare ogni violenza politica ed a rispettare la democrazia, [mentre la seconda] ha appreso a condannare qualsiasi attentato ai diritti umani e a rispettare anch’essa la nostra democrazia.[10]
L’appello del Presidente cileno, in continuità con Aylwin, è all’unità dei cileni, da attuare evitando le divisioni che la data dell’11 settembre da sempre suscita nel paese, in nome di una riflessione storica condivisa. Per questo ha stigmatizzato come <<divisoria>> e <<partitista>> l’iniziativa (ormai divenuta una tradizione in Cile) del presidente della Camera, il socialista Carlos Montes, di tenere una commemorazione ufficiale di Allende nel parlamento.
Molto lavoro c’è ancora da fare rispetto alla definizione della dittatura militare e della struttura sociale di collaborazione su cui si è basata per 17 anni; così come riguardo lo status di oppositori legittimi e “terroristi” illegittimi da parte delle istituzioni, della giustizia cilena e della memoria storica. Solo negli ultimi anni si è iniziato a parlare di <<dittatura civico-militare>>, per sottolineare le profonde ramificazioni e collaborazioni nella società civile, mentre sull’insegnamento scolastico degli anni Sessanta-Settanta, del governo di Allende e del golpe militare si continua a mantenere un profilo di neutralità e superficialità storica. Tentativi in questo senso sono stati fatti, ma, contrariamente ad esempio alla Spagna del socialista Zapatero che ha approvato una Ley de la Memoria, il Cile si trova ancora bloccato in tal senso[11].
Infine, il recente caso di Ricardo Palma[12] e della sua compagna Silvia Brzovic, militanti del FPMR, in particolare il primo accusato dell’omicidio di Jaime Guzmàn nel ’91[13], comparsi in Francia nel febbraio 2018 chiedendo asilo politico, dopo vent’anni di clandestinità, sta riaprendo il dibattito circa le continuità tra dittatura e democrazia, le impunità e la conseguente legittimità o meno delle azioni di lotta armata precedenti e successive alla transizione negoziata iniziata con il referendum del 1988. Il caso ha riaperto una forte contrapposizione all’interno del paese, tra i cittadini che sostengono la campagna del comitato Asilo para la Familia Brzovic-Palma (che sostiene, prove alla mano, che la confessione dell’omicidio è stata estorta a Palma sotto tortura) e le manifestazioni organizzate in particolare dall’UDI – Union Democratica Indipendiente (formazione di destra fondata da Guzmàn). Anche il mondo politico cileno, unanimemente favorevole all’estradizione in Cile del combattente rodriguista è stato scosso a inizio settembre: in particolare, a causa di un video in cui l’ex candidato presidenziale della coalizione di centrosinistra Nueva Mayoria si dichiarava a favore della richiesta di asilo politico in Francia per la famiglia Brzovic-Palma. A seguito dei pesanti attacchi della destra e della condanna da parte dei suoi stessi colleghi del Partito socialista, Alejandro Guiller ha dovuto ovviamente correggere le proprie affermazioni, precisando che si riferiva alla famiglia di Palma, il quale invece dovrebbe tornare a scontare la propria pena in Cile.
Pubblicato da Asilo para la familia Palma Brzovic su Domenica 2 settembre 2018
[1] M.R. Stabili, op. cit., p. 214
[2] Ivi, p. 59
[3] Ivi, p. 213
[4] Delle oltre 200 istruttorie aperte contro Pinochet dal 2000, grazie alla revoca dell’immunità parlamentare da parte della Corte Suprema, ricordiamo in particolare: l’inchiesta del giudice Guzmàn del gennaio 1998 per l’arresto e la scomparsa di cinque dirigenti comunisti e nel dicembre 2000 riprende la vecchia istruttoria per il caso della “Carovana della morte”, emettendo una nuova ordinanza per complicità in sequestro e omicidio; è poi agli arresti domiciliari nel 2004 con l’imputazione di omicidio e nove sequestri nel quadro del Piano Condor; a luglio dello stesso anno esplode lo scandalo dei suoi fondi segreti depositati negli Stati Uniti e si apre un altro processo per riciclaggio di denaro ed evasione fiscale.
[5] Ricordiamo tra i molti: il caso Aguero-Meneses nel febbraio 2001; la costituzione, nel marzo dello stesso anno, della Comisiòn Etica Contra la Tortura – Cect; l’appello al governo della Coordinadora de Organizaciones de Ex Presos Politicos de Chile, nel 2002, per una riparazione integrale per le vittime sopravvissute.
[6] Informe de la Comisión Nacional sobre la Detención Política y la Tortura, p. 8
[7] Qui scaricabile: http://www.purochile.rrojasdatabank.info/Nosotros.pdf
[9] http://chileddhh.blogspot.com/p/agrupacion-de-detenidos-desaparecidos.html
[10] C. Antonini, «Con Allende la democrazia era malata». Lo schiaffo presidenziale al Cile a 45 anni dal golpe di Pinochet, su Left: https://left.it/2018/09/12/con-allende-la-democrazia-era-malata-lo-schiaffo-presidenziale-al-cile-a-45-anni-dal-golpe-di-pinochet/
[11] D. Grimaldi, Conflictos e historia: ¿hacia una ley de memoria en Chile?, su El Mostrador: http://www.elmostrador.cl/noticias/opinion/2011/12/09/conflictos-e-historia-%C2%BFhacia-una-ley-de-memoria-en-chile/; N. Cardoch, La importancia de la memoria histórica en educación en Chile: http://www.filosofia.uchile.cl/noticias/105211/la-importancia-de-la-memoria-historica-en-educacion-en-chile
[12] https://www.infobae.com/america/america-latina/2018/02/16/detuvieron-en-francia-a-ricardo-palma-salamanca-ex-guerrillero-condenado-por-el-asesinato-del-ideologo-de-pinochet/
[13] J. Guzmàn, giurista di formazione, fu uno dei principali “intellettuali organici” del regime militare, a capo del gruppo di lavoro che scrisse la Costituzione pinochetista del 1980. Membro del partito di destra UDI dopo il 1988, venne ucciso nel ’91 da un commando armato. Il principale indiziato per la sua uccisione, Ricardo Palma Salamanca, frentista combattente, venne condannato in seguito a una ammissione rilasciata sotto tortura nel 1992.