Bolsonaro presidente: una tragedia per il Brasile, un salto nel vuoto per la regione
Proseguiamo il dibattito e la riflessione sul risultato delle elezioni brasiliane, con questo articolo di Dario Clemente (giovane ricercatore e militante, ormai radicatosi in Argentina) pubblicato originariamente su http://rrii.flacso.org.ar/bolsonaro-presidente/.
Per vedere il primo contributo di Elio Catania: Bolsonaro, la destra latinoamericana e i conti aperti con il passato.
Il 27 ottobre, alla vigilia del secondo turno presidenziale in Brasile, l’architetto principale della mega-investigazione “Lava Jato”, l’ex procuratore generale della repubblica Rodrigo Janot, ha espresso il suo voto per il candidato del Partito dei Lavoratori (PT) Haddad, “contro l’intolleranza “. Quest’ultima, inaspettata, dichiarazione si aggiungeva ad altre che, nei giorni e nelle settimane precedenti, avevano confermato il posizionamento di gran parte dello spettro politico moderato se non a favore di Haddad, almeno contro l’ex capitano dell’esercito Jair Messias Bolsonaro e il suo discorso razzista, machista e omofobico. D’altro canto invece il protagonista assoluto dell’indagine, il giudice federale Sergio Moro, che ha mostrato simpatia per la candidatura di Bolsonaro, a tal punto da essere stato scelto come nuovo ministro della Giustizia già nelle ore successive al voto.
Qualcuno ha detto, nei giorni di fuoco della più grande inchiesta sulla corruzione nella storia del Brasile, che la Lava Jato avrebbe finito per “demolire tutto”, non solo il PT come volevano i suoi promotori, cioè l’opposizione e alcune fazioni del potere giudiziario. La fame di punizioni esemplari della classe media, deliberatamente stimolata a colpi di pentiti d’oro e reportage sensazionalistici, non sarebbe stata saziata dalla distruzione del “partito più corrotto della storia”, ma avrebbe preteso molte più teste, forse tutte. Come sempre, le premonizioni sono tali solo con il senno di poi, e in questo caso inoltre si tratta di una mezza verità. Quello che è certo è che nella Lava Jato dobbiamo cercare una delle spiegazioni di quanto è successo il 7 ottobre, ratificato poi domenica 28 al secondo turno.
La crisi di legittimità del sistema politico nel suo complesso, un dato certo non nuovo, ha raggiunto un punto di svolta a partire dall’inizio della “Mani Pulite” brasiliana, che ha prodotto un risultato politico simile, ma più preoccupante, del suo corrispettivo italiano: ha dato alla luce un Berlusconi fascista. Poco importa che l’ormai ex deputato di Rio de Janeiro abbia fatto il suo ingresso in politica più di tre decenni fa, abbia cambiato partito quattro volte e possegga un record invidiabile di assenze alle sedute parlamentari, totalizzando un solo progetto di legge approvato a suo nome. O che abbia varie denunce penali a suo carico, e sia stato accusato in queste elezioni di ricevere finanziamenti illeciti e diffondere “fake news” contro il PT, cosa che il Tribunale Elettorale ha deciso di non punire. Perché una volta eliminato dalla contesa l’ex presidente Inacio “Lula” da Silva (in carcere a seguito di una condanna in secondo grado che è stata criticata perfino dall’ONU), Bolsonaro è riuscito a convincere l’elettorato che possedeva tutte le caratteristiche comuni a diverse candidature di destra che hanno avuto successo a livello globale negli ultimi anni: la “novità”, la “diversità” rispetto al sistema politico, la “genuinità” declinata in un atteggiamento politicamente scorretto.
Come una mina vagante, la candidatura di estrema destra di Jair Bolsonaro, presentata da un partito minuscolo, ha portato al collasso dei partiti storici di centro (MDB[1]) e della destra (PSDB[2]), con effetto dinamitardo sulla scena politica. Paradossalmente il centro-sinistra (PDT[3]), la sinistra (PSOL[4], che aumenta il numero di deputati) e soprattutto l’odiato PT (che conserva il gruppo più grande alla Camera) mantengono le posizioni, sebbene non si debba ignorare l’enorme astensione, dal momento che 42 milioni di brasiliani non hanno votato o hanno votato in bianco. Ad ogni modo non c’è da equivocare: si tratta di una sconfitta storica per il progressismo brasiliano, nelle urne e nelle piazze.
Né si deve dimenticare che queste elezioni si sono svolte in condizioni di vero e proprio stato d’eccezione, iniziato con il golpe parlamentare del 2016 e consacrato dalla reclusione nell’aprile scorso dell’ex presidente Lula, favorito per la vittoria finale in queste elezioni (39% delle intenzioni voto secondo l’ultimo sondaggio in agosto), passando per l’assassinio di vari attivisti politici, come la consigliera comunale del PSOL Marielle Franco, impegnata a denunciare la violenza poliziesca nelle favelas. E’ stata una campagna elettorale insanguinata, con diversi morti e feriti tra i sostenitori di Haddad, un assalto coltello alla mano contro Bolsonaro e diversi omicidi di persone LGBTIQ che possono essere ricollegati a sostenitori fanatici dell’ex militare. Una campagna condita, inoltre, da continue dichiarazioni bellicose delle forze armate, dalle minacce del presidente eletto di non riconoscere il risultato elettorale in caso di sconfitta e coronata da una inquietante sfilata di carri armati in feste per le strade di Rio de Janeiro nelle ultime ore di domenica 28.
La destra vince promettendo un ritorno a un passato idealizzato, un “Make Brazil great again” che, nelle parole di Bolsonaro, equivarrebbe a portare indietro il paese a quello che era 50 anni fa. Tuttavia, in questo caso, lo sguardo nostalgico si intreccia con le bandiere storiche della destra brasiliana e si colora del razzismo coloniale che si rivolge contro la popolazione afro-brasiliana (più della metà del totale), della rivendicazione aperta della dittatura e della tortura, della promessa di “carcere o esilio per i banditi rossi”. Più che un Trump brasiliano, quindi, Bolsonaro è un fiero figlio del golpe del ’64, i cui protagonisti non sono mai stati messi sotto accusa nei trent’anni del Brasile democratico, e che ora, sostenuti dalle chiese pentecostali e dalle forze armate, aggiornano il loro programma promettendo un neoliberalismo autoritario.
Le relazioni internazionali del Brasile di Bolsonaro
Uscita dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e dall’accordo sul cambiamento climatico di Parigi, interruzione del trasferimento di terre alle popolazioni indigene, disboscamento dell’ Amazzonia, invasione del Venezuela: se il programma di Bolsonaro fosse applicato nella sua interezza, si tratterebbe di una vera e propria bomba per la regione e per il mondo. Più che un programma, tuttavia, si tratta di un compendio di frasi strepitate dal candidato di destra o dai suoi familiari e collaboratori durante una campagna elettorale dominata dall’attacco al PT, alla sinistra e ai “corrotti”, rifiutando ripetutamente gli inviti al dibattito pubblico e ad esporre il suo piano di governo.
Ciononostante, e, in questo sì, c’è una somiglianza con Trump, le sue intenzioni esplosive dovranno misurarsi con la realtà, e la sua politica estera, rimodellata dai vincoli esterni e dalle contraddizioni interne, potrebbe finire per assumere un carattere più pragmatico di quello che i suoi seguaci desidererebbero. Fra le poche certezze, scontato un riallineamento con gli Stati Uniti e Israele ancor più accentuato che durante l’amministrazione di Temer, suggellato dal gesto di trasferire l’ambasciata brasiliana a Gerusalemme, come fece Trump a maggio.
Sul fronte cinese la questione invece è più complicata. Da un lato Bolsonaro ha ripetutamente attaccato la politica commerciale del gigante asiatico in Brasile, e ha visitato Taiwan, provocando un incidente diplomatico. Dall’altro Pechino rappresenta ormai il primo mercato per le esportazioni brasiliane e sembra poter essere uno dei principali acquirenti nel caso in cui lo slogan di campagna “privatizzare tutto” venga applicato alle numerose compagnie statali. Ad ogni modo questo atteggiamento nei confronti della Cina, a cui si aggiunge l’avvicinamento al Giappone, sembra suggerire che il tempo dei BRICS sia definitivamente terminato.
Sulla stessa linea, a livello regionale l’elezione di Bolsonaro sembra essere la pietra tombale sul “regionalismo post-egemonico” e sulle sue istituzioni, già indebolite dai governi neoliberisti del Sud America. Nei giorni successivi alla vittoria l’equipe del neo presidente ha avuto a cuore di riferire alla stampa che ritiene che i paesi del Mercosur dovrebbero essere liberi di negoziare separatamente accordi di libero scambio. Nessun interesse è stato mostrato nel riattivare l’Unasur o la Celac, e perfino il rapporto con l’Argentina sembrerebbe passare in secondo piano, avendo scelto come meta per il primo viaggio da presidente il Cile.
Lo scenario peggiore che potrebbe aprirsi ora è che il riorientamento verso gli Stati Uniti significhi una parziale reintroduzione di quella politica di “sub-imperialismo” come alleato minore della superpotenza del nord che Ruy Mauro Marini ha denunciato e analizzato negli anni ’60 e ’70, portando al rovesciamento dell’intero processo di “sudamericanizzazione” del governo dei problemi regionali che era stato ottenuto negli anni passati.
[1] Partido do movimento democrático brasileiro, partito centrista per eccellenza, la cui collocazione ideologica è alquanto difficile. Il PDMB racchiude varie correnti al proprio interno, da moderati a conservatori, laici socialisti e cattolici, e si presenta più come un “cartello elettorale”.
[2] Partido da Social Democracia Brasileira, formazione della socialdemocrazia sudamericana, con posizione di destra moderata.
[3] Partido Democrático Trabalhista, partito laburista, con posizione moderata di centrosinistra.
[4] Partido Socialismo e Liberdade, anticapitalista e di sinistra radicale. Fondato nel 2004 da alcuni parlamentari del Partito dei Lavoratori in dissenso con la politica giudicata conservatrice, le alleanze troppo ampie, la corruzione e la mancanza di democrazia interna del partito di Lula. A loro si sono aggiunti intellettuali e militanti provenienti da diversi partiti di sinistra.