A cosa serve questa storia?

Lo storico della cultura Henry Louis Gates ha scritto: Le persone capiscono sé stesse e il mondo attraverso narrazioni – racconti trasmessi da insegnanti, giornalisti, ‘autorità’ e altri produttori di senso comune. E usano contro-narrazioni per contestare quella realtà dominante e i presupposti su cui si regge.[1]
In questi tempi di rigurgiti reazionari che impongono, anche e soprattutto a chi lavora con la Storia, di prendere parola pubblica, in cui il neo ministro degli Interni, Matteo Salvini, dichiara guerra a profughi e rifugiati, riteniamo che questa storia potesse servire proprio in tal senso.

Lucy, “Mecha”, “Mono”, David sono quattro esponenti di almeno tre generazioni e oltre 1 milioni di cileni che hanno conosciuto l’esilio politico e la condizione di rifugiati.
Loro, che hanno dovuto abbandonare il proprio paese, le famiglie, gli studi e il lavoro, per ripartire da zero in un paese che sì li ha accolti (come oggi non farebbe mai), ma dove la fatica (materiale e psicologica) dell’esilio l’hanno pagata con il proprio sudore.

Parlando con loro, esuli da quasi quarant’anni, o anche con chi è arrivato dopo, è frequente sentirsi dire “il vostro…o nostro, paese”, riferendosi all’Italia. E allora questa Storia è anche la storia di comunità straniere, cacciate dal loro paese da dittature appoggiate anche da “interessi” occidentali, che si sono radicate in un altro paese straniero, dove hanno svolto lavori umili e faticosi, dove tenacemente e pur avendo sempre “le valigie dietro la porta per tornare a casa” hanno intrecciato la loro identità a quella del paese che li accolti e che è diventato anche il loro. Esattamente come il Cile è diventato parte della storia italiana.

Infine, è la storia di come eravamo: la storia di un paese la cui ambasciata a Santiago del Cile fu l’unica a rimanere aperta per accogliere migliaia di esuli politici che, correndo di notte, evitando le pattuglie militari che la assediavano, saltando un muro alto tre metri, fu rifugio sicuro e salvò migliaia di vite.[2] Oggi, arrivassero esuli politici e richiedenti asilo dall’America Latina delle giunte militari, li consegneremmo senza battere ciglio ai campi di concentramento e alle camere di tortura.


Ecco perché diciamo che la Storia, a volte, ha contenuto sovversivo. Con le parole di Aleida Assmann, citate da Bruno Cartosio:

per questo i lavori sulla storia e sulla memoria non sono mai neutrali: tutte le cancellazioni, revisioni o riesplorazioni del passato nel presente – tanto quelle degli storici, quanto quelle rimasticate dall’industria culturale – hanno in sé un progetto che riguarda il futuro. Ogni focalizzazione in un <<determinato momento del presente>> su aspetti o momenti del passato, ogni messa in prospettiva di un qualsiasi <<preciso spaccato del passato>> apre un <<orizzonte sul futuro>>.[3]

Sovversivo, dunque, non perché “disonesta” o “scorretta” scientificamente, non perché “abusata” e “falsificata”, ma perché apre spazi di opposizione rispetto alla mentalità del presente e aiuta a vedere alternative.

 

[1] H. L. Gates, Tredici modi di vedere un nero. I significati del caso O.J. Simpson, in Acoma. Rivista internazionale di studi nordamericani, III, 7, p. 13, 1996 in B. Cartosio, Parole scritte e parlate. Intrecci di storia e memoria nelle identità del Novecento, p. 29, Società di mutuo soccorso Ernesto De Martino, 2016

[2] Si vedano a questo proposito le memorie del diplomatico P. De Masi, Santiago. 1 febbraio 1973-27 marzo 1974, Bonanno 2013 e dell’ambasciatore Roberto Toscano in Il golpe del 1973 e gli asilados: http://www.cinquantamila.it/storyTellerThread.php?threadId=fc5IlGolpeDel1973IoCeroRobertoTosca

[3] A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, p. 445, Il Mulino 2002 in B. Cartosio, op. cit., p. 10

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