Bolsonaro, la destra latinoamericana e i conti aperti col passato
Contesto politico e produzione storica
Il nostro è un progetto di ricerca storica che però, come già raccontato più volte, si intreccia con quella corrente della storiografia latinoamericana che due storiche argentine hanno definito historia reciente[1]. In quanto tale, la storia orale riflette e studia le conseguenze di lungo periodo delle dittature militari che hanno investito la regione fin dagli anni Trenta del secolo scorso. Sebbene relative a momenti storici differenti, la modernizzazione militare rappresenta comunque un elemento centrale nella genesi dello Stato e della società in America Latina.
Lo Stato-nazione latinoamericano ha una genealogia diversa da quella europea, come ci ricorda Anìbal Quijano. Qui non si registrò <<l’omogeneizzazione della popolazione in termini di esperienze storiche comuni>> né la democratizzazione di una società che potesse esprimersi in uno Stato democratico; le relazioni sociali si formarono sulla base del colonialismo del potere, fondato sull’idea di razza, che divenne il fattore fondamentale della costruzione dello Stato-nazione. <<La struttura del potere è stata ed è ancora organizzata sopra e attorno all’asse coloniale. La costruzione della nazione e soprattutto dello Stato-nazione è stata concettualizzata e realizzata contro la maggioranza della nazione, in questo caso gli indigeni, i neri e i meticci.>>[2]
Il ruolo centrale avuto dall’esercito nelle guerre di indipendenza, la difficoltà delle classi dirigenti liberali e conservatrici dell’Ottocento a costruire un sistema economico indipendente e slegato dalle relazioni coloniali attraverso cui i nuovi Stati potevano stare nel mercato internazionale e, dunque, la parallela necessità di far fronte a una conflittualità sociale crescente dall’inizio del Novecento in avanti; successivamente, con l’affermarsi di organizzazioni ed esperienze politiche rivoluzionarie e progressiste, questi fattori endogeni si sono intrecciati con la cornice geopolitica della Guerra Fredda, che ha puntato su forze armate incapaci di produrre una ideologia nazionalista anti-americana (come successo invece in altri contesti ex coloniali, come il Medio Oriente) ma unicamente conservatrice e reazionaria.
Le vicende della Historia Oral nella regione a partire dall’inizio degli anni Novanta in poi hanno riflettuto le condizioni politiche e istituzionali dei relativi paesi. Se M. Halbawchs ha correttamente parlato di <<quadri sociali della memoria>>[3], dovremmo aggiungere anche la dimensione dei <<quadri sociali della produzione storica>>. Non esistono infatti (doverosa eccezion fatta per il Messico del 1910, Cuba nel ‘59 e Nicaragua nel ‘79) dittature militari, nella storia latinoamericana, conclusesi in seguito a un processo rivoluzionario o evento violento; anche il caso della giunta argentina, che sicuramente ha avuto un colpo durissimo dalla sconfitta militare nella disastrosa guerra delle Malvinas/Falkland, non conosce un fattore determinante di instabilità interna. Questo ha fatto sì che le transizioni siano avvenute in modo pattuito e controllato[4].
Il primo decennio del dopo-giunta, gli anni Novanta, non è stato caratterizzato da riforme strutturali nel sistema economico-istituzionale ereditato dalle dittature, né da movimenti sociali di massa sulla questione dei diritti umani e della memoria. Sono il silenzio e la volontà di dimenticare a dominare la società. Quello che è conosciuto come il decennio neoliberale dell’America Latina, conclusosi con il disastro economico argentino del dicembre 2001, termina non solo con una crisi economico-sociale, ma anche con un’inversione di tendenza a livello politico. La vittoria elettorale di Hugo Chavez in Venezuela nel 1998 inaugurò l’inizio di una fortunata stagione per la sinistra latinoamericana, dominatrice indiscussa della scena politica regionale fino al 2010. I governi di Lula e Rouseff in Brasile, di Chavez in Venezuela, di Bachelet in Cile, dei coniugi Kirchner in Argentina, di Zelaya in Honduras, di Morales in Bolivia, di Correa in Ecuador, di Ortega in Nicaragua, di Lugo in Paraguay, di Funes nel Salvador e di Humala in Perù sono stati differenti espressioni della variegata sinistra sud americana. Una sinistra eterogenea al suo interno, soprattutto sul piano della politica economica e del rapporto con gli Stati Uniti, ma accomunata da un’accentuata attenzione all’eguaglianza sociale e alla questione storica della riappropriazione di tutto quanto le dittature militari avevano privatizzato e venduto a imprese estere.
Sul piano della produzione storica e della storia orale, oltre che su quello processuale rispetto ai crimini dei militari e le violazioni dei diritti umani, è in particolare l’Argentina a rappresentare un caso-scuola per il diritto internazionale, con la sua capacità di abolire le leggi di impunità promulgate dai primi governi democratici e avviare processi di ampia scala contro ufficiali dell’esercito. Anche il Cile conosce una stagione fortunata, con la piccola “spinta” avuta dal giudice spagnolo Baltasar Garzon: il fermo a Londra di Augusto Pinochet dal 1999 al 2001 fu centrale nel riavviare processi a carico dell’ex dittatore e di molti torturatori rimasti impuniti.
In Brasile è la fondazione Getulio Vargas che invece porta avanti un progetto di archivio di fonti orali concentrato soprattutto sulla storia politica e istituzionale del paese, arrivando in un secondo momento a lavorare anche con leader sindacali e operai.
In Colombia si sviluppa anche un filone più attento alle vicende politiche nazionali, in particolare sul ciclo di lotte avviato dall’assassinio di Jorge Eliécer Gaitán, con il famoso bogotazo, in cui molti vedono il punto di inizio del decennale conflitto armato civile tuttora aperto.
In Perù, Bolivia, Ecuador, Venezuela l’interesse per la memoria popolare e l’esperienza campesiña si arricchisce di un filone più antropologico attento al mondo indigeno dei cosiddetti pueblos originales, <<popoli originari>>. L’ambito nativo e agrario è studiato soprattutto da un punto di vista culturale e folclorico, attento alla dimensione degli usi e costumi, oltre che della memoria indigena. In Bolivia in particolare la historia oral è definita con l’aggettivo andina e sempre in questo paese la giustizia di transizione riesce a colpire alti ufficiali dell’esercito implicati nelle violazioni di diritti umani negli anni dell’ultima dittatura.[5]
La sconfitta politica della sinistra e i conti aperti con il passato
Perché finisce un ciclo politico? Non è possibile leggere la politica, dal basso e istituzionale, della regione con le coordinate europee. L’alternanza democratica è un concetto che di certo nei dopogiunta si è affermato, ma rappresenta una spiegazione estremamente insufficiente. Così come il complotto e l’ingerenza nordamericana: sicuramente gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo centrale nella destabilizzazione di diversi governi sudamericani, a seconda della loro maggiore o minore radicalità, soprattutto muovendo una spietata guerra commerciale ed economica che in Venezuela e Argentina ha avuto due campi di battaglia spietati.
Ma c’è un problema più profondo che si incontra anche con i nodi irrisolti delle transizioni democratiche, ed è quello del modello e progetto politico. Il primo colpo alla sinistra sudamericana è arrivato nel 2009, con il golpe militare contro Zelaya in Honduras; la tendenza è stata poi confermata dalla vittoria del neoliberista Macri nelle elezioni presidenziali argentine del 2015, dalle manifestazioni contro il governo di Maduro in Venezuela e dalla sconfitta di Morales al referendum che gli avrebbe permesso di candidarsi per la quarta volta. La vittoria di Sebastian Piñera in Cile, di Jair Bolsonaro in Brasile, la caduta del governo Ollanta in Perù, il fallimento del processo di pace in Colombia, sono altri eventi che segnano la fine di un ciclo politico.
La crisi economica internazionale ha accentuato le debolezze sistemiche di governi che hanno correttamente fondato la loro legittimità ed essenza politica sulla redistribuzione, l’egualitarismo, la reale indipendenza della regione. Si può affermare che l’azione di questi governi non sia stata mai facile, attaccati pesantemente e accerchiati progressivamente da agguerritissime opposizioni di destra e dalle antiche strutture di potere ereditate dalle giunte militari.
Lo scontro non si è svolto solo sul piano della politica economica e sociale, ma anche su quello della memoria storica: sia la sinistra che la destra in America Latina hanno vissuto molto della legittimità proveniente dal passato; la prima supportata dai movimenti sociali e dalle controinchieste della società civile, la seconda dalle verità ufficiali prodotte dalle Commissioni verità e riconciliazione[6], che si sono rivelate incapaci di abolire le “gabbie” istituzionali e costituzionali della continuità, le amnistie, di imporre il principio della responsabilità individuale, così come di produrre leggi della memoria storica e la necessaria pedagogia pubblica.
L’incapacità di scardinare il sistema dell’economia privatizzato o quella (nel caso venezuelano) di uscire dal modello coloniale monoproduttivo (cioè fondato su una sola risorsa, il petrolio in questo caso), ha fatto sì che nel momento del crollo dei prezzi delle risorse (il Sud America è la principale regione al mondo per investimenti nel settore minerario), così come del petrolio, la polarizzazione politica e il conflitto sociale andassero a colpire le forze di governo. Non solo: non aver abolito le leggi di emergenza e di antiterrorismo delle dittature, come nel caso di Argentina, Cile (in questi due casi in particolare nei confronti delle proteste mapuche) e Brasile, ha anche causato una crescente pressione militare sul piano della crisi e una gestione poliziesca dell’ordine pubblico, che ha frammentato anche il corpo sociale del consenso di questi governi (si pensi anche al Venezuela di Maduro che ha rinunciato, in netta discontinuità rispetto a Chavez, a svolgere la lotta politica sul campo del consenso e del confronto elettorale).
Jair Bolsonaro è l’ultimo esponente di una destra latinoamericana legata strettamente alle forze armate, fieramente erede del progetto politico delle giunte militari e sostenitrice di una gestione autoritaria dello Stato. Non deve stupire il consenso da questi riscosso: le sue affermazioni sulla dittatura, così come quelle di Piñera in Cile sul golpe di Pinochet[7], sono perfettamente introiettate da una società polarizzata ed educata alla memoria mutilata e fintamente “condivisa” (quindi presuntamente neutrale) prodotta dalle verità ufficiale delle transizioni negoziate.
Basti pensare che solo nel novembre 2013 la Commissione di Verità Nazionale, in Brasile, ha ordinato che venissero riesumati tutti i resti dei corpi disponibili per far chiarezza sull’orrenda vicenda dei desaparecidos. Ci è voluto un quarto di secolo (e un decennio di governo del PT di Lula) prima che i brasiliani decidessero di affrontare da vicino il proprio periodo di dittatura militare. Ci sono ragioni pragmatiche per questo, ha affermato Maurizio Politi (incarcerato nel ’70 e successivamente espulso dal paese in quanto oppositore), direttore del Nucleo di Memoria, un’associazione di ex prigionieri politici e vittime di persecuzioni, che sta ora indagando sugli anni bui del Brasile.
Come in tanti altri paesi, la classe dirigente post-dittatura mise in atto una amnistia che avrebbe dovuto applicarsi a tutti: alle vittime della dittatura, come pure a coloro che erano responsabili dei crimini. <<I militari volevano pacificare il paese, ma allo stesso tempo volevano conservare il loro antico potere. Ecco perché abbiamo sentito parlare molto poco di questo periodo>>[8]. Certamente comunque il processo di apertura della memoria pubblica è partito troppo tardi e l’elezione di Bolsonaro non lo renderà di certo più semplice.
Soprattutto ciò che la sinistra latinoamericana dell’ultimo ventennio non è riuscita a realizzare è una riflessione storica pubblica e ampia sull’altra grande sconfitta, quella storica della sinistra nel Novecento (il caso cileno e di Unidad Popular da questo punto di vista hanno un valore generale enorme e tutto da studiare, nel suo carattere irriducibile di scontro politico e sociale di pochi contro molti) e sulle sue conseguenze: il genocidio politico di massa e il terrore di Stato hanno minato alla base non solo la capacità organizzativa della sinistra, ma anche e soprattutto l’intelligenza pubblica e critica della società civile. La cesura storica è stata netta, proprio per il suo carattere fisico di sterminio, e il trauma collettivo, da un punto di vista sociale, ereditario per generazioni. Affrontarli è il compito principale che si è data la historia oral nella regione e in tal senso anche noi proviamo a dare il nostro modesto contributo.
[1] M. Franco, F. LevÍn, Historia reciente. Perspectivas y desafíos de un campo en construcción, Paidós 2007
[2] R. Zibechi, La nuova corsa all’oro, p. 19, Re:Common 2016
[3] M. Halbawachs, I quadri sociali della memoria, Ipermedium, 1997
[4] Si veda approfondimento sul sito: http://www.soprailvostrosettembre.com/il-pacto-de-lolvido-cileno-e-la-democrazia/
[5] Cfr. G. Carotenuto, Todo cambia. Figli di desaparecidos e fine dell’impunità in Argentina, Cile e Uruguay, Le Monnier 2015
[6] Cfr. M. R. Stabili, Le verità ufficiali. Transizioni politiche e diritti umani in America Latina, Nuova Cultura 2008, Roma
[7] C. Antonini, «Con Allende la democrazia era malata». Lo schiaffo presidenziale al Cile a 45 anni dal golpe di Pinochet, su Left: https://left.it/2018/09/12/con-allende-la-democrazia-era-malata-lo-schiaffo-presidenziale-al-cile-a-45-anni-dal-golpe-di-pinochet/
[8] http://www.pandorando.it/brasile-desaparecidos-giustizia/?fbclid=IwAR3MzxDPMGUxS3_O7v-kF6u9H9Q1hoazr6SbReVByOGQkUUQV5k_ydIsKg4