Bolsonaro presidente: una tragedia per il Brasile, un salto nel vuoto per la regione

Proseguiamo il dibattito e la riflessione sul risultato delle elezioni brasiliane, con questo articolo di Dario Clemente (giovane ricercatore e militante, ormai radicatosi in Argentina) pubblicato originariamente su http://rrii.flacso.org.ar/bolsonaro-presidente/.

Per vedere il primo contributo di Elio Catania: Bolsonaro, la destra latinoamericana e i conti aperti con il passato.

Il 27 ottobre, alla vigilia del secondo turno presidenziale in Brasile, l’architetto principale della mega-investigazione “Lava Jato”, l’ex procuratore generale della repubblica Rodrigo Janot, ha espresso il suo voto per il candidato del Partito dei Lavoratori (PT) Haddad, “contro l’intolleranza “. Quest’ultima, inaspettata, dichiarazione si aggiungeva ad altre che, nei giorni e nelle settimane precedenti, avevano confermato il posizionamento di gran parte dello spettro politico moderato se non a favore di Haddad, almeno contro l’ex capitano dell’esercito Jair Messias Bolsonaro e il suo discorso razzista, machista e omofobico. D’altro canto invece il protagonista assoluto dell’indagine, il giudice federale Sergio Moro, che ha mostrato simpatia per la candidatura di Bolsonaro, a tal punto da essere stato scelto come nuovo ministro della Giustizia già nelle ore successive al voto.

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Bolsonaro, la destra latinoamericana e i conti aperti col passato

Contesto politico e produzione storica

Il nostro è un progetto di ricerca storica che però, come già raccontato più volte, si intreccia con quella corrente della storiografia latinoamericana che due storiche argentine hanno definito historia reciente[1]. In quanto tale, la storia orale riflette e studia le conseguenze di lungo periodo delle dittature militari che hanno investito la regione fin dagli anni Trenta del secolo scorso. Sebbene relative a momenti storici differenti, la modernizzazione militare rappresenta comunque un elemento centrale nella genesi dello Stato e della società in America Latina.

Lo Stato-nazione latinoamericano ha una genealogia diversa da quella europea, come ci ricorda Anìbal Quijano. Qui non si registrò <<l’omogeneizzazione della popolazione in termini di esperienze storiche comuni>> né la democratizzazione di una società che potesse esprimersi in uno Stato democratico; le relazioni sociali si formarono sulla base del colonialismo del potere, fondato sull’idea di razza, che divenne il fattore fondamentale della costruzione dello Stato-nazione. <<La struttura del potere è stata ed è ancora organizzata sopra e attorno all’asse coloniale. La costruzione della nazione e soprattutto dello Stato-nazione è stata concettualizzata e realizzata contro la maggioranza della nazione, in questo caso gli indigeni, i neri e i meticci.>>[2]

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11 settembre 1973. La resistenza dimenticata: testimonianza di due combattenti popolari | Seconda parte

Proseguiamo con la seconda testimonianza gappista, dopo quella di Manuel Cortés: a parlarci è Miguel Farìas, mirista e giovane militante del “Grupo de Amigos Personales” del Presidente Allende. 

Testimonianza di Miguel Farìas, nome di battaglia “Eugenio”:

Sono stato orgoglioso di aver conosciuto Patàn, anche se molto più tardi, perché, come ha detto, avevamo altri nomi – io ero “Eugenio” – , non ho mai ricordo di averlo visto in quel periodo. Ero un giovane che non era della scorta, ma proveniva dal Dispositivo di sicurezza presidenziale. Il Dispositivo aveva gambe diverse, dipartimenti diversi, aree diverse, autisti operativi, sicurezza, armamenti, CI, cioè Contro Intelligence, la guardia personale. Ero un giovane del quartiere Barrancas, oggi Pudahuel, del distretto di Estrella, a Santiago. Un giovanotto molto irrequieto di 13 anni e di 14 o 15 anni, penso per sempre con un cuore rosso e nero. Sono sempre stato un Mirista [militante del MIR] e continuerò ad esserlo.

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11 settembre 1973: la resistenza dimenticata. Testimonianza di due combattenti popolari | Prima parte

Molto volentieri vi proponiamo un articolo scritto da Guillermo Correa, compagno cileno esule in Italia, sulla testimonianza dei combattenti dimenticati dell’11 settembre 1973. L’iniziativa si è inserita nell’ambito del XII Festival del cinema sociale e dei diritti umani. Racconti di vita e militanti che sono al tempo stesso fonte orale per la storiografia e denuncia politica dell’attuale “pacto de l’olvido” egemone in Cile. Un punto di vista affine alla nostra idea di public history. Data la lunghezza pubblicheremo il contenuto in 2 parti: iniziamo con la testimonianza del gappista Manuel Cortés.

Con un omaggio ai combattenti che hanno resistito al colpo di stato dell’11 settembre 1973, è stata inaugurata la versione XII del Festival del cinema sociale e dei diritti umani. Questi compagni sono rimasti anonimi perché la storia ufficiale, quella raccontata dalle élite al potere che hanno effettuato una uscita negoziata dalla dittatura civico-militare, è stata incaricata di lasciarli nell’oblio.

Questo intervento, venerdì 7 settembre, è stato inquadrato nella commemorazione del 45 ° anniversario del colpo di stato. Il Collettivo Film Forum ha invitato due membri del GAP, il dispositivo di sicurezza del Presidente della Repubblica Salvador Allende, i compagni Manuel Cortés e Miguel Farias, noti in quel momento per i loro nomi politici e di battaglia, “Patán” e “Eugenio”. Alle 19:00 è iniziata la cerimonia in cui entrambi hanno fornito testimonianze che hanno permesso di apprendere una parte della loro vita e, allo stesso tempo, hanno riportato alcuni episodi relativi specificamente a quello che è successo martedì 11 settembre. Francisco Marin, giornalista, è stato il moderatore di questi interventi, rendendo anche noto il suo parere sulla morte di Salvador Allende, il prodotto di un’indagine giornalistica esaustiva e dell’analisi scientifica dei fatti portata avanti dal perito forense Luis Ravanal, tesi che è stata pubblicata nel libro “Allende: non mi arrendo”, dove afferma che la morte del Presidente, catalogata dalla storia ufficiale come un suicidio, obbedirebbe ad un’operazione di assemblaggio.

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Oblio e stabilità: dall’arresto di Pinochet al caso Brzovic-Palma

La strada della concertazione e dell’olvido è spiegabile storicamente considerando una serie di fattori: la forza politica della destra, dei militari, delle istituzioni plasmate dal regime e la parallela debolezza dell’opposizione; la “gabbia istituzionale” costruita e garantita dalla Costituzione; l’incapacità di riorganizzazione politica che 17 anni di Terrore di Stato hanno prodotto sulla società, profondamente segnata dalla paura e caratterizzata dalla volontà di oblio; la cultura politica della nuova classe dirigente, sostenitrice della necessità di accordo e negoziazione in nome della riconciliazione nazionale, considerata l’unica strada per ricostruire e consolidare la democrazia.

Soffermiamoci un momento su quest’ultimo punto in relazione al secondo importante momento nella costruzione della verità ufficiale cilena sugli anni della dittatura militare: l’ordine di cattura internazionale emesso nel 1998 dai giudici spagnoli Baltasar Garzòn e Manuel Garcìa Castellòn contro Pinochet, mentre questi si trovava a Londra per motivi medici. I due giudici, infatti, avevano accolto l’anno prima la denuncia presentata dalla Uniòn Progresista de Fiscales – UPF (associazione di magistrati progressisti), per l’omicidio di cittadini spagnoli in Cile, aprendo così un’inchiesta per genocidio e terrorismo contro l’ex dittatore.

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