Il Ballo degli esclusi. Ipotesi e interrogativi dalla ribellione popolare in Cile.
Articolo di Hernán Ouviña e Henry Renna*, originariamente tradotto dallo spagnolo da e pubblicato su Zic.it
È passata più di una settimana da quando è iniziata in Cile una rivolta popolare: nella giornata di venerdì 18 Ottobre, infatti, migliaia di studenti della capitale hanno organizzato una “evasione di massa” nella metropolitana di Santiago, a seguito dell’ennesimo tentativo da parte dei governi neoliberisti di depredare e privatizzare i beni comuni, espresso in quest’occasione nell’ulteriore aumento del costo del biglietto della metro imposto dal governo di Sebastián Piñera.
Dieci giorni di insubordinazione collettiva che sono iniziati come protesta per l’aumento di 30 pesos del costo dei mezzi di trasporto pubblico [2] ma che, se analizzati approfonditamente, rappresentano il disprezzo nei confronti di trent’anni di neoliberismo sfrenato.
In questi giorni abbiamo assistito a un’ondata di disobbedienza contro il famoso modello cileno, fino a ieri definito dai governi della Concertación come “giaguaro latinoamericano” e oggi dal governo Piñera come “oasi dell’America Latina” [3].
La reazione del Governo a queste proteste non è stata né l’ascolto né il dialogo, al contrario: la dichiarazione dello stato di emergenza, coi militari nelle strade, coprifuoco, restrizione delle libertà, tremila arrestati, quasi mille feriti, molti dei quali gravi a causa delle pallottole sparate dalla polizia [4], 19 morti, violazioni dei diritti umani, arresti e sequestri illegittimi, soprusi, stupri e torture nelle stazioni della metropolitana e nelle caserme da parte delle forze dell’ordine.
Diventa quindi urgente analizzare ciò che è accaduto al di là delle letture superficiali che circolano nei media egemonici. In questo senso, quelle che seguono sono alcune ipotesi e una serie di domande, scritte al culmine di questo processo di insubordinazione che emerge come un punto di rottura e un momento costitutivo nella storia recente del Cile e dell’America Latina.
Una rivolta spontanea nata dai giovani di estrazione popolare che diviene -per moltiplicazione e irradiazione- una “danza degli esclusi”.
Ancora una volta, come nel 2006 e nel 2011, la rivolta è stata stimolata dal movimento degli studenti liceali, ma questa volta con un’importante distinzione. Al di là della categoria degli studenti, ciò che ha segnato l’origine della rivolta e la sua evoluzione, è stato il ruolo dei giovani di estrazione popolare che coinvolge e, al tempo stesso, supera gli studenti, come soggetto polimorfo e a più ampio spettro rispetto ai cicli precedenti.
Il movimento, semplicemente attraverso il coordinamento di gruppi su whatsapp, convocazioni nelle scuole e nei licei tramite il passa parola, e un uso contro-egemonico dei social, ha invitato alla realizzazione di una forma originale di lotta (autodefinita evasione di massa) con lo slogan di protesta e agitazione trasversale “Evadere, non pagare, anche questo è lottare!”
È interessante evidenziare questo diverso carattere del soggetto politico popolar-giovanile che rivitalizza le origini della rivolta, proprio perché la riproduzione radicale dell’esplosione sociale nei giorni seguenti è spiegata, in parte, da questa trasversalità che ha fatto breccia nei sentimenti della gente.
Questo invito all’evasione ha attecchito da subito nell’intero settore educativo ma è stato rapidamente accolto in molti settori popolari per poi irradiarsi con una velocità insolita alla maggior parte delle classi sociali.
Questo è il modo in cui, senza alcuno spirito di centralizzazione, dirigismo o logica d’avanguardia, le diverse stazioni della metropolitana (una vasta rete in cui ogni giorno circolano quasi 3 milioni di persone) hanno fatto da punti di condensazione della protesta, dove si é dato libero sfogo alla sperimentazione politica e alla creatività dal basso.
L’evasione generalizzata, unita alla brutale repressione subita dai giovani venerdì 18 ottobre, in diverse parti della città, ha generato una connessione quasi immediata con l’intersezionalità materiale di molte forme di sfruttamento, indebitamento, precarietà e alienazione subite dalle classi subalterne nel territorio cileno, generando una pratica antagonista dalla grande capacità articolatoria delle lotte nel e per “il bene comune”. Il grido di protesta ha fatto sì che, finalmente, questo “sistema di dominio multiplo” che disintegra e frattura soggetti e lotte, venga riconosciuto nell’immaginario collettivo come uno solo.
Pertanto, sebbene possa essere definita una rivolta di natura spontanea, deve essere letta come una congiunzione di processi e eventi, di trame sotterranee e scommesse quotidiane che hanno minato sempre più l’egemonia neoliberista in vigore in Cile, fino all’esplosione tanto massiva quanto inaspettata che ha fatto scoppiare la bolla del mito di una società falsamente inclusiva e democratica.
Questa esplosione ha come preludio, e allo stesso tempo mette in relazione, varie resistenze: la lotta delle donne contro il sistema patriarcale e in difesa della sovranità sui corpi/territori, espressa mesi prima con le occupazioni delle università per rendere visibile la violenza e la precarietà della vita, che colpisce più acutamente le donne e le dissidenze; le resistenze contro lo sfruttamento minerario, contro la privatizzazione dei beni comuni, contro l’inquinamento ambientale e le espropriazioni nelle campagne e nelle città; nonché la storica lotta del popolo Mapuche per il territorio, l’autodeterminazione e la fine della militarizzazione del Wallmapu [5], iniziative e proposte per una vita dignitosa basata sul recupero dei diritti sociali (educazione, salute, pensioni etc.) e la lotta attraverso azioni di strada, occupazioni, e altre iniziative collettive contro la mercificazione della vita.
Insieme, tutte queste lotte, hanno contribuito all’erosione di una visione positiva delle politiche neoliberiste ed hanno dato uno sfogo allo stato di insoddisfazione a livello sociale. Allo stesso modo, la richiesta della fine della logica del profitto a tutti i costi, grido già ascoltato durante le proteste del 2011, è attualizzata questa settimana, in un clima di insoddisfazione generalizzata, in un fragoroso “Ya Basta” simile a quello lanciato dallo Zapatismo decenni fa dalla giungla di Lacandona.
Pertanto, la rivolta ha permesso una interconnessione tra queste scommesse collettive di lotta e una spontaneità di massa che irrompe nelle strade operando per moltiplicazione e irradiazione, riuscendo a collegare le ingiustizie storiche con il malcontento attuale.
Ciò che si sperimenta nelle strade al momento non è, quindi, un movimento sociale ma una società in movimento, stanca della precarietà, dell’indebitamento, della commercializzazione della vita, dell’autoritarismo e della disuguaglianza sia socio-economica sia politico-istituzionale.
Uno stato di emergenza decretato dal cattivo governo e l’emergere dei popoli oltre lo Stato.
Dopo una lunga giornata di mobilitazioni, barricate, incendi e cacerolazos in numerose parti della regione metropolitana, quella stessa notte di venerdì 18 ottobre, il presidente Sebastián Piñera ha annunciato pubblicamente la dichiarazione dello “stato di emergenza”.
Sabato nelle strade sono spuntati centinaia di soldati distribuiti nei punti strategici della città e armati per la guerra. L’immagine riporta ai momenti peggiori della dittatura di Pinochet e ha messo in evidenza la connessione tra quel terrorismo di stato esercitato per 15 anni e lo stato attuale di paura e sottomissione dei corpi che viene ricreato sotto la minaccia delle armi nel XXI secolo.
Ma questo tentativo di spaventare coloro che il giorno prima erano scesi in piazza ha generato un livello più alto di rabbia e disprezzo che si è irradiato a tutte le latitudini e territori del Cile.
Allo stato di emergenza imposto dallo Stato, il popolo, i popoli, hanno reagito con uno stato di agitazione permanente “oltre” lo Stato. Un’insurrezione collettiva, un potere plebeo che con estrema audacia ha trasformato la conquista delle strade in un laboratorio di sperimentazione politica, che lentamente ha prefigurato i suoi modi di vita (con i suoi tempi, le sue territorialità e i suoi sensi), riappropriandosi degli spazi pubblici (nei suoi usi sociali oltre lo Stato e il Mercato) e ricostruendo “il comune” (dal basso) con varie modalità di rottura dell’ordine neoliberista.
Da questo punto di vista, comprendiamo che l’attacco a determinati edifici e beni pubblici, contrariamente a quanto si sente, non è un attacco alla “cosa pubblica”, piuttosto è un attacco contro alcuni simboli materiali che fanno parte di uno Stato refrattario e sordo agli interessi e ai bisogni popolari.
Se nel precedente ciclo di rivolta lo slogan “Basta coi profitti” metteva al centro la lotta contro il mercato, l’attuale rivolta si configura come un attacco diretto allo Stato. In un certo senso, la mobilitazione ha identificato ciò che molti hanno detto negli ultimi anni: sebbene il neoliberismo abbia venduto un’idea dei mercati liberi, lo Stato non ha mai abbandonato il campo (come presume e grida un certo progressismo vernacolare), al contrario, ha intensificato i suoi interventi, ma non come dispositivo di benessere per la collettività ma come meccanismo di guerra e istanza di mediazione al servizio del capitale e come garante della disuguaglianza e principale promotore dell’ordine borghese.
Senza essere in grado di prevedere il futuro di questa emergenza, ciò che è evidente è che è esplosa una radicale sfida alla logica mercantile e statale che fino a questo momento sembrava impossibile. Lo stato di emergenza, istituito prima a Santiago e in pochi giorni esteso a oltre la metà delle regioni del paese, non è altro che l’espressione di uno “Stato in emergenza” che a causa della perdita di legittimità sociale ricorre alla violenza per resistere.
In questo senso, il secondo passo del governo è stato quello di imporre un coprifuoco totale nelle province di Santiago e Chacabuco oltre ai comuni di Puente Alto e San Bernardo per sabato pomeriggio, 19 ottobre [6]. L’appello alle forze armate da parte del governo, lungi dall’essere interpretato come una forza del regime politico, dimostra la sua precarietà egemonica e il progressivo indebolimento dei meccanismi di sottomissione ideologica che sono stati in grado di sostenere questo intricato sistema di dominio. La disobbedienza al coprifuoco di centinaia di migliaia di persone denota un’ulteriore rottura del consenso neoliberista e, con il passare dei giorni, ha scatenato una crisi totale del regime. Il milione e mezzo di persone nell’ultima concentrazione di massa di venerdì 25 ottobre a Santiago ha riaffermato questa crisi sistemica.
Riconfigurare “il comune” nella rivolta: una temporalità e una spazialità diversa e propria.
Durante questi ormai dieci giorni di rivolta, nelle strade del Cile c’è stato uno scontro con l’ordine politico, e allo stesso tempo si intravede, in forma embrionale, una possibile reinterpretazione della politica. Una delle caratteristiche più suggestive di questa reinterpretazione è quello di una sorta di altra temporalità: accelerata nella sua irradiazione contro tutto ciò che è prevedibile e allo stesso tempo calma e intensa nella sua esperienza, più simile ai ritmi delle popolazioni indigene che alla velocità e liquidità capitalista.
Osserviamo una sorta di politica interna dicotomica: da un lato per l’assenza di mediazioni (siano esse istituzioni statali, organizzazioni di partito e persino i movimenti sociali finora esistenti) e dall’altro, come autoaffermazione del “qui e ora” tanto nelle soluzioni come negli esperimenti, che nega l’indolente pazienza del governo e dei tempi dei mercati.
In questo tempo c’è una rottura e un disaccordo viscerale riguardo al dispositivo di attesa. Esiste inoltre, una prefigurazione di un tempo “molto altro” nel presente della lotta, più denso e irriducibile rispetto ai parametri omogenei e lineari delle lancette dell’orologio. Le lunghe giornate dei raduni di massa, che si sono protratte per molte ore, sono il miglior esempio di restituzione di un tempo adeguato, per recuperare quell’armonia temporanea nelle città e nei corpi che viene quotidianamente violata dalla vertiginosa velocità dei flussi capitalistici degli stili di vita attuali.
Quest’altra temporalità ha come complemento necessario un’altra spazialità dell’azione sociale e politica, altri modi di abitare il politico attraverso un’opera comune sottratta alla semantica e alle modalità di intervento proprie dell’ordine liberale borghese.
L’occupazione di piazze e parchi, strade e binari della metropolitana, incroci e terrazze, è anche la creazione di una nuova territorialità, con un suo significato, che ha dato alla protesta un’identità non statale, popolare e comunitaria, cooperativa e autonoma, condensata attraverso azioni dirette, non settoriali o corporative ma con la capacità di concepire interessi comuni, incrociare mezzi e fini in un unico raggio e quindi ricomporre collegamenti intersoggettivi, identità collettive, modi e pratiche di vita. È così che, con il passare dei giorni di protesta, questa temporalità e spazialità contro-egemonica si ramifica e inizia a riarmare processi di fratellanza dal basso [7], che consentono la deliberazione pubblica basata sulla cooperazione e sulla fiducia reciproca, riconfigurata da un pluralità di espressioni organizzative. In questi giorni, assemblee popolari di cittadini e di comunità hanno iniziato a proliferare in molti territori, insieme alla costituzione di zone autonome temporanee che hanno messo in cortocircuito l’ordine sociopolitico stabilito nell’egemonia neoliberista.
Una soggettività antagonista si sta unendo, combinando con atteggiamento festoso la protesta e l’indignazione, attraverso un’espansione di desideri e affetti, che rivendica sempre più l’idea di cura reciproca e reciprocità tra pari come spina dorsale di questo sconvolgimento della presunta normalità. Forse qualcosa di molto semplice, ma radicalmente rivoluzionario in Cile, è che in questo altro spazio-tempo è stato recuperato il saluto, il guardarsi negli occhi, il mostrare i corpi, il parlare di politica, il camminare a testa alta, il mettere in discussione i media, il denunciare le ingiustizie.
Quella che avrebbe potuto essere solo un’evasione individuale di soggetti scontenti per non accedere ai beni e ai servizi della società neoliberista muta in evasione collettiva a partire dal “comune”, un rifuggire dalla mercificazione della vita.
Più che violenza, (auto) difesa e recupero della vita, contro la violenza sistematica di uno Stato e di una società neoliberista.
Durante tutti questi giorni, i media egemonici cileni – ma anche quelli di altri paesi della regione – hanno bombardato il loro pubblico con immagini di “violenza” e “vandalismo” esercitate dai manifestanti nelle proteste di strada. Non neghiamo sia successo ma crediamo che il discorso dei media tenda a nascondere la sostanza del processo in corso nelle strade del Cile.
Il saccheggio delle grandi catene di supermercati non mirava mai a violare la vita, al contrario, a loro difesa mettono in discussione la sua grezza e perversa mercificazione e precarietà. Ciò che sta alla base di queste azioni dirette è una comunità, una sfida alla logica dell’indebitamento, della spoliazione, della speculazione finanziaria e della disumanizzazione, che sottomette i diritti sociali al denaro e rende la vita stessa un semplice valore di scambio.
Quindi, non a caso, di fronte a un sistema di morte che “non dà da mangiare né da amare”, una riappropriazione del comune (nella sua connotazione più diversificata e integrale), che in alcuni casi comporta anche forme violente, viene esercitata dall’indignazione e dall’impazienza di controviolenza, che – oltre a esprimere il ripudio di alcune istituzioni che incarnano o simboleggiano il dominio dello Stato, il patriarcato dei salari e la violenza del denaro- aspirano a proteggere la vita e mirano alla soddisfazione diretta e immediata dei bisogni e desideri, senza ricorrere alla brutale irrazionalità della merce-forma (che può essere ottenuta solo in base al potere d’acquisto). Vale a dire, hanno esercitato con le loro mani, lontano dalla morale della cosa giusta, ciò che la società neoliberista ha chiesto loro negli ultimi trenta anni: un senso di successo e “integrazione” misurato in base ai beni di consumo posseduti [8].
Il valore d’uso del tempo alienato e il valore d’uso dei prodotti sono stati rivitalizzati in ogni saccheggio, o viale occupato, attraverso una trasgressione alla proprietà privata, una messa in discussione delle grammatiche del potere statale e una sospensione della mediazione del denaro che – defeticizzato- ha portato al recupero collettivo di ciò che l’ordine capitalista intende offrire come un bene di consumo accessibile e vendibile, ma che era stato espropriato in precedenza come prodotto e ricchezza sociale alla classe lavoratrice, attraverso una politica sistematica e invisibile di espropriazione e confisca [9]. Quindi, in termini storici, invece di saccheggio, è riappropriazione della vita.
Parallelamente, l’affermazione di Sebastián Piñera secondo cui “siamo in guerra contro un nemico molto potente” non dovrebbe essere letta come una semplice gaffe. È la esplicitazione di uno stato di guerra costante – a volte massiva e visibile come adesso, altre più surrettizia e selettiva come nel caso delle comunità Mapuche, delle donne, dei migranti e degli studenti – che assume forme nuove e multiple, nonché metodi non convenzionali di sterminio e disciplina. Questo è ciò che lo zapatismo ha definito “Quarta guerra mondiale”, in quanto non comporta più il confronto tra due eserciti regolari in un determinato territorio ma coinvolge sempre più stati in alleanza con trame informali e sottili, e con l’esercizio della repressione, che insieme minacciano la vita quotidiana della popolazione civile e delle comunità auto-organizzate.
Precisamente, quel “potente nemico” a cui allude Piñera non è altro che il “nemico interno” che le dittature militari hanno cercato di decimare decenni fa, cioè il popolo, o meglio ancora, i popoli mobilitati, qui e ora, diventati soggetti politici e che oggi denunciano le varie e complementari forme di violenza mercantile statale, esercitando una (auto) difesa della vita in quell’immenso campo di battaglia a cielo aperto che è il corpo-territorio cileno.
La sostanza di questo processo in corso si riferisce quindi alle dinamiche della manifestazione collettiva, della deliberazione pubblica, della denaturalizzazione e della sfida alle relazioni di dominio e alla sostenibilità nel tempo di una folla mobilitata che si è stancata, lasciando indietro il senso di inevitabilità, la cultura della dissociazione e della paura paralizzante introiettata dall’egemonia neoliberale in gran parte della popolazione.
A questo ordine politico e socio-economico ancora in piedi, sempre meno legittimo e fondamentalmente basato sul monopolio della violenza che detiene, ma violato nella sua fibra più intima dalla soggettività ribelle e con potenziale emancipatore che si respira nelle strade, alludono i murales quando dicono “abbiamo perso tutto, anche la paura!”, come un grido, sì, contro l’aumento del prezzo del trasporto pubblico ma soprattutto a difesa della vita dignitosa e per la cosa “comune”.
Alcune domande per un finale aperto
Ciò che accade in questi giorni nel territorio cileno ha alcune caratteristiche specifiche eccezionali che sarebbe sciocco negare. Tuttavia, allo stesso tempo è necessario leggere questa rivolta nel quadro di un più ampio processo di relazioni di forze che – a vari livelli e intensità – si sviluppano a livello continentale e persino globale.
L’insurrezione permanente di Haiti da almeno due anni, aggiunta all’insurrezione indigena e popolare avvenuta settimane fa in Ecuador, così come altre mobilitazioni e azioni dirompenti che si verificano in diverse realtà della regione, danno un resoconto della stessa vocazione antagonista che rifiuta i piani di adattamento e i tentativi privati che cercano di imporre le classi dominanti e l’imperialismo come uscita da una crisi organica del capitale che ancora non ha potuto essere superata.
Come accennato in precedenza, queste ribellioni sono risolte in una temporalità “molto diversa” e nelle nuove spazialità createsi, e quindi non sono riducibili ai formati e alle dinamiche della democrazia rappresentativa borghese o dell’individualismo neoliberista. Pertanto, non possono essere costretti nella camicia di forza delle esperienze dei progressismi latinoamericani, né possono essere assimilati a un semplice “malcontento dei cittadini”; piuttosto, sono collegati a una esuberanza che emerge al di là dello Stato e del mercato, che giunge non solo a affrontare le destre radicate al potere (come quella guidata da Sebastián Piñera), ma anche a dimostrare le debolezze e le ambiguità dei governi e delle piattaforme elettorali di centrosinistra, che si precipitarono a proclamare la morte del neoliberismo mentre non si rendevano conto che stavano velando il morto sbagliato.
In tutti questi anni, la retorica anti-neoliberista e democratizzante propagandata da queste coalizioni e regimi, ha avuto come altra faccia la persistenza di un capitalismo di tipo estrattivista, precarietà del lavoro, repressione della polizia, femminicidi, espropriazione di beni naturali e violazione dei diritti collettivi, così come una soggettività basata sull’indebitamento e il consumismo acritico e un’istituzionalità statale burocratica contraria alla partecipazione popolare, alla creazione di reti comunitarie e del protagonismo dal basso.
Sulla base di questa analisi provvisoria e nel fervore di quello che sembra essere un cambiamento altamente imprevedibile su scala continentale – condividiamo alcune domande che sorgono dal panorama inedito che è attualmente vissuto nella regione. Recuperiamo in loro lo spirito del pedagogo e educatore popolare Paulo Freire, che ci chiama a mettere in discussione ciò che è ovvio o prevedibile, e supponiamo che non ci siano risposte definitive o statiche nel pensiero critico, poiché implicano sempre sfide e un’enorme creatività da parte dei popoli:
La rivolta nel territorio cileno è sintomo di progetti progressisti incompiuti del ciclo precedente? O è il risultato – e la risposta – della loro superficialità?
Queste ribellioni sono il preludio a una nuova fase di probabile ascesa di governi progressisti riformatori? O piuttosto esprimono una critica teorico-pratica dei limiti intrinseci di questi processi, che richiede una reinvenzione radicale della forma, dei mezzi e della sostanza del progetto di emancipazione?
Possiamo leggere questa rivolta come non conformità spontanea e transitoria dei cittadini? O è pertinente interpretarlo dal suo antagonismo con il socialismo come il suo nuovo orizzonte?
È opportuno cercare di incanalare il detto “emergere oltre lo Stato” attraverso meccanismi istituzionali? Un plebiscito in vista di un’assemblea costituente o elezioni anticipate?
O sarebbe più appropriato approfondire e rafforzare quel potere proprio e alternativo, la comunità e il popolare, che consente di realizzare la rivolta in più auto-organizzazione e più lotta socio-politica? Consigli locali, assemblee popolari?
Non vogliamo presentare una dicotomia tra un futuro delle lotte “dentro” o “fuori” dallo Stato, perché sappiamo che l’orizzonte rivoluzionario può richiedere entrambi (sebbene, a proposito, l’esperienza storica mostri che queste temporalità e logiche tendono ad essere discordanti), ma siamo interessati a invitare e problematizzare una serie di domande aggiuntive, complementari alle precedenti:
Cosa abbiamo imparato dal precedente ciclo di lotte? La tradizione elettorale – nei governi locali e nel Congresso – dei movimenti sociali, territoriali e studenteschi ha ottenuto i risultati attesi? Quali ostacoli, limitazioni e costi implica questo tipo di modalità di partecipazione / presenza nelle istituzioni statali? Quale interpellanza / interrogazione fa questa rivolta a questo sforzo?
In che misura la ribellione popolare vissuta in questi giorni nelle strade del Cile fa parte di un processo di ripresa delle lotte emancipatrici guidate dal basso a livello continentale e mondiale?
Al di là delle possibili risposte, che saranno senza dubbio il prodotto del cammino collettivo stesso come popoli e che Freire ha enunciato come praticabile, oggi è più chiaro che mai che chi aspira a superare la barbarie espressa dal capitalismo, dal patriarcato e dal colonialismo, in questa fase crudele e repressiva quanto apocalittica che stiamo attraversando, non abbia alcuna garanzia di vittoria. La nostra è una scommessa fragile e senza alcuna certezza, e in essa giochiamo sia la possibilità di costruire una società radicalmente diversa da quella attuale, sia la sopravvivenza dell’umanità e del pianeta terra nel suo insieme. Ecco perché è urgente ripristinare all’interno di questi stessi processi di lotta e insubordinazione che coinvolgono la regione e tutto il sud del mondo, i dibattiti strategici di cui abbiamo bisogno per il dialogo fraterno, la discussione collettiva e l’ascolto reciproco.
In questo contesto, il socialismo come alternativa alla civiltà non è solo un’opzione tra molte, ma un urgente bisogno storico a pochi passi dall’abisso. Di fronte al declino e alle evidenti limitazioni dei progetti progressisti nel nostro continente e di fronte a una violenta controffensiva generale delle destre, delle classi dirigenti e l’imperialismo per superare questa crisi, sulla base di un’intensificazione della xenofobia, di una militarizzazione dei territori, della spoliazione dei beni comuni, della precarietà della vita e dello sfruttamento eccessivo del lavoro, si possono solo raddoppiare gli sforzi per costruire un orizzonte di natura socialista.
Certo: sarà un socialismo in cui si adattano molti socialismi. Di potere popolare e “buen vivir” (il vivere bene o la buona vita) , di comunità, femminista, autogestito, decolonizzato, migrante, antirazzista, ambientalista, plurinazionale e internazionalista, multicolore e variegato, come la Whipala [10]. Nel frattempo, proprio come arringa una delle tante bandiere che sventolano per le strade di Santiago, “continueremo a combattere fino a quando varrà la pena vivere”.
*********
Note:
[1] Il titolo originale dell’articolo é “El baile de los que sobran” che riprende quello di una canzone de Los Prisioneros in cui si riferivano alla gioventù popolare degli anni della dittatura in Cile.
[2] Questo aumento non è isolato, sono più di venti gli aumenti registrati dall’inaugurazione della Metropolitana di 12 anni fa, collocandola come una delle più costose in tutto il continente (US $ 1,17). Si stima che coloro che ricevono un salario minimo spendano almeno il 13% delle loro entrate per il trasporto pubblico.
[3] Non è inutile menzionare che il 70% della popolazione guadagna meno di $ 770 al mese e 11 milioni di cileni (dei 18 del paese) sono indebitati non solo per il mutuo della casa o dell’auto ma anche per pagare le rette degli studi, le assicurazioni per la salute etc, quindi, possiamo immaginare cosa significhi per una famiglia questo aumento in termini di costo della vita, ancor più considerando che si tratta di uno dei pochi beni e servizi che (in un’economia neoliberista fino al parossismo) non possono essere pagati con la carta di credito o differiti, ma colpiscono direttamente le tasche dei settori popolari.
[4] Va notato che le notizie sulla stampa avvertivano dell’uso di armi militari ad alto impatto, non consentite nelle regole della NATO per l’azione militare nelle città.
[5] Nome Mapuche dato al territorio abitato da questo popolo che comprende parte del Sud cileno e argentino.
[6]Vale la pena ricordare che l’ultimo coprifuoco stabilito è stato dopo il terremoto del 2010 nella città di Concepción, dopo la segnalazione di numerosi saccheggi di supermercati e negozi e che tale misura non è stata decretata nella provincia di Santiago dal 1986, dopo il tentativo di attentato contro il dittatore Augusto Pinochet.
[7] Uno dei buoni esempi è stato nelle diverse città del paese in cui convergevano le curve delle diverse squadre di calcio.
[8] Non è una novità, ma è già stato rivelato nel 2010 dopo il terremoto. La popolazione come “atto riflesso” di un inconscio neoliberista a causa del rischio di carenze, si è riversata in grandi centri commerciali e catene di supermercati per accaparrarsi diversi beni di consumo, alcuni di base e altri no.
[9] Se esercitiamo un ricordo di media e lunga durata, la vera violenza e il saccheggio collettivo dell’attuale ordine neoliberale ha le sue radici più profonde nella cosiddetta “pacificazione dell’Araucanía” (equivalente alla “conquista del deserto” in quello che oggi è l’Argentina), eufemismi che alludono all’accumulazione e al genocidio dei popoli indigeni che, da una parte e dall’altra della catena montuosa, hanno gettato le basi delle società capitaliste contemporanee. Da allora in poi, uno stato razzista e monoculturale, borghese e proprietario terriero si forma in entrambi i territori, protetto dagli interessi popolari e della comunità. Questo stato è stato quello che ha effettivamente esercitato una violenza offensiva all’estremo contro quella pericolosa alterità agli occhi del potere, fintanto che erano alieni e refrattari alla “civiltà occidentale e cristiana”, e che nel caso del Cile, dopo un prolungato e instabile percorso storico (che includeva numerosi massacri militari contro le popolazioni indigene e le classi subalterne), acuì il suo aspetto coercitivo nella lunga notte criminale della dittatura di Pinochet, che dura formalmente dall’11 settembre 1973 all’11 marzo 1990 , ma ciò continua durante gli anni di invariante democrazia protetta
[10] Bandiera multicolore dei popoli andini che facevano parte del territorio chiamato Tahuantinsuyo.
*Hernán Ouviña è un attivista ed educatore popolare argentino, dottore in Scienze sociali. Professore all’Università di Buenos Aires e ricercatore presso l’Istituto di studi dell’America Latina e dei Caraibi. Coordinatore di seminari di formazione con movimenti sociali e sindacati di base in Argentina e America Latina. Autore dei libri “Zapatismo per principianti” e “Rosa Luxemburg e la reinvenzione della politica”.
*Henry Renna è un attivista ed educatore popolare cileno. Scienziato politico, studente del master “Pensamiento Complejo de la Multiversidad Edgar Morin”, collabora con diversi movimenti sociali e popolari in Cile e nella regione. Autore del libro “Note sull’esercizio e la costruzione di autonomie”.